Il potere è un fine o un mezzo?

Il problema è che tra il pensare, il dire e il fare c’è il dramma esistenziale della politica italiana

Può vivere un Paese, in tempi così carichi di minacce, senza grandi progetti, senza una visione che accenda i cuori e la mente delle persone, che restituisca fiducia nel futuro individuale e collettivo?

È la domanda/incipit dell’intervento che ieri mattina Walter Veltroni ha fatto sul Corriere della Sera.

Ha aggiunto che non è una domanda retorica perché  questi non sono tempi per furbi. Inciso che legittima le domande successive: cosa è il potere, un fine o un mezzo? Si governa solamente per continuare a farlo o per prendere quelle decisioni, popolari o no, che corrispondono all’interesse della nazione? 

Non credo che chi governa prenda scientemente delle decisioni che solo in piccola misura corrispondono all’interesse della nazione solo per continuare a detenere il potere. La buona fede la concedo. Il problema è che la nostra classe politica è composta soprattutto da trascinatori, non da statisti. Leader che sanno parlare alla pancia della gente che è altrettanto colpevole se continua ad essere alla ricerca dell’uomo dei miracoli.

Tranciante è stato anche Alessandro Barbano su Huffingtonpost. Ritiene che tra il pensare, il dire e il fare c’è il dramma esistenziale della politica italiana. La quale non riesce a dire ciò che pensa e, perciò, non riesce a fare ciò che dice. 

E aggiunge che è una malattia che contagia, sia pure in misura diversa, tutti i partiti e che suscita il preoccupato interesse di analisti e intellettuali. C’è chi, come, Ernesto Galli della Loggia, la diagnostica come una deriva del trasformismo, diventato il “vero principio costitutivo del sistema politico italiano” e incarnato da un premier privo, e fiero per questo, “di qualunque appartenenza politica”. 

C’è chi, come Sabino Cassese, la chiama sindrome della politica corsara, priva di radicamento storico e sociale, schiava del consenso e, perciò, adusa a promettere ciò che non può distribuire e a distribuire ciò che sottrae, con il debito pubblico, alle generazioni future. 

Il problema è che questa volta invece non ci è permesso sbagliare. In questi giorni si sta dando molta enfasi alle parole che Mario Draghi ha detto al Meeting. Sono teorie giustissime e perfettamente condivisibili. Ma non si tratta di niente di nuovo. Fare debito “buono” è il minimo che si può chiedere alla politica. Fra l’altro è la scelta che fa qualsiasi imprenditore oculato che investe per ricapitalizzare l’azienda. 

A tal proposito vale la pena ricordare che dopo la crisi del 2008 si sono salvate soprattutto quelle aziende che avevano ricapitalizzato e puntato sull’innovazione e la qualificazione del personale.

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Davide Buratti

Davide Buratti, giornalista professionista, fondatore della Cooperativa Editoriale Giornali Associati che pubblica il Corriere Romagna, di cui dal 1994 e per 20 anni è stato responsabile della redazione di Cesena. Oggi in pensione scrive di politica, economia e attualità a 360 gradi nel suo blog per Romagna Post. Per contatti utilizzate il box commenti sotto gli articoli.