Forlì, 12 ottobre 2013
Mi sono sempre chiesto come facesse Katia a vivere con i giorni contati. Siamo tutti a scadenza, ma lei sapeva che la sua era maledettamente vicina, e si collocava all’interno di una banda di oscillazione di non molti anni. Come poteva accettarlo? E, nello stesso tempo, come riusciva ad essere così intensamente interessata a un futuro che – ne era perfettamente consapevole – non sarebbe stato il suo?
Parlo dell’associazionismo, della grande battaglia per la partecipazione territoriale, per l’integrazione degli immigrati, per il suo ultimo capolavoro, cui teneva a ragione tantissimo: la marcia romagnola della pace, pochi giorni or sono.
Katia aveva deciso di dare tutto il tempo che le rimaneva agli altri. Ha tenuto per sé solo la sofferenza, la durezza dell’esistere con la malattia, la fatica quotidiana di guardare la clessidra mentre la sabbia scende. Per questa sua empatia di fondo, Katia costituiva l’antidoto vivente alla dissoluzione dei legami sociali, all’egoismo dilagante, all’autoreferenzialità della stessa politica. Che praticava, aveva praticato: nella cui comunità viveva da sempre, circondata dai suoi amici: ma sempre con una spiccata attenzione per il lato umano, relazionale, emozionale. Che la rendeva diversa da molti, molti altri.
Riservava attenzione alle parole: quelle dette, con misura, parsimonia e un certo rattenuto pudore; e quelle scritte, di preferenza in versi, in cui liberava la densità e la complessità apparentemente compresse in un corpo esile e fragile, da ragazza. A proposito, Katia: la grande Alice Munro ha vinto il Nobel per la Letteratura, e tu non sei riuscita a saperlo per una frazione irrisoria di tempo. Ne saresti stata felice.
Se l’aveste vista in ospedale, in una camera colorata del reparto di Pediatria – quella Pediatria che aveva accompagnato tutta la sua accidentata esistenza, e ora la salutava mestamente: lei, ultima sopravvissuta di un piccolo gruppo di bambini accomunati da un destino terribile e senza speranza, tanti anni fa -; se l’aveste vista, dicevo, avreste potuto cogliere l’involontaria sintonia fra uno spazio pieno di fantasia e una giovane, perché Katia era giovanissima – dentro e fuori -, abbandonata alle trame prodigiose dei suoi ultimi sogni.
Noi tutti ringraziamo Katia per l’umanità che ci ha donato, in questi anni di lavoro duro ed io personalmente per l’onore che mi ha fatto, accettando di essere assessore della Giunta municipale di Forlì; e vorremmo dire a Nives e a Massimo che quel tanto che Katia ha realizzato nella fase estrema della sua vita ha fornito a lei il propellente per lottare contro un male devastante e ha dato alla comunità un esempio cristallino: di civismo, di consacrazione al bene pubblico, di determinazione. Di amore. Sì, di amore. Perché noi crediamo, come credeva lei, che se dietro tutto questo affastellarsi spesso insensato di conflitti e di negoziazioni che si è usi chiamare politica, non c’è, a livello pre-politico, cioè a monte, l’amore per il prossimo, un atto di gratuità originario e assoluto, senza compensazioni, allora tutto è inutile, tutto viene sporcato, tutto s’inquina. Tutto perde di senso, esaurendosi nella polvere di un eterno presente impastato di niente.
Katia con la sua vita e la sua morte ci rammenta questo. Ha saputo trasformare, giorno dopo giorno, con forza e con passione, il suo “io” in un “noi” corale, con la persuasione del suo sorriso, aperto, ironico, disarmante. Tutti voi, che siete qui presenti, sapete che non è retorica questa; tutti voi potreste testimoniarlo, con un brano, piccolo o grande, della vostra esperienza.
Per questa sua volontà radicale e assoluta di non mollare, che interpella la nostra fragilità, la nostra inadeguatezza, la nostra ambiguità di persone cosiddette “sane” che si ritengono invincibili e immortali, ponendoci di fronte alla questione fondamentale della responsabilità verso una comunità, piccola o grande, che esiste a prescindere da noi e che esige da noi un grumo sostanziale di bene per andare avanti, Katia resterà nei nostri cuori.
Per sempre.
Roberto Balzani
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