Nel 1985, dopo aver vinto il festival di Sanremo, i Ricchi e Poveri risposero per le rime ai critici che li accusavano di essere diventati nazional popolari. La risposta arriva dal borderò della Siae, poi i gorgheggi che hanno caratterizzato l’inizio della nostra carriera li facciamo quando siamo fra di noi, questo il senso (le parole esatte furono altre) dell’argomentazione del trio canoro. Nello stesso periodo la filosofia nazional popolare di Pippo Baudo furoreggiava in tivù e faceva ascolti record. Adesso, trent’anni dopo, a Sanremo vince la normalità. Il festival dove non si parla di politica, dove non ci sono esagerazioni e dove protagonista è la canzone, quella italiana.
È un dato che deve far riflettere. L’italiano medio, quello che tutti i giorni va a fare la spesa e che il fine settimana va in pizzeria con gli amici o la famiglia, non vuole essere stupito con effetti speciali, ma vuole la normalità. Per lui la parola d’ordine è una, in particolare: serenità.
Questo deve essere anche un monito per i politici che però, nello stesso tempo, devono fare moltissima attenzione e riuscire a coniugare la richiesta delle persone con una visione in prospettiva. E non è facile, perché non sono due facce della stessa medaglia e, per molti versi, non sono neppure complementari. Mirare ad un risultato in prospettiva spesso significa posticipare quei risultati positivi che, invece, sono necessari per dare quelle risposte immediate che chiedono le persone in cerca di serenità.
La politica, si sa, è l’arte del compromesso. Quindi il vero statista deve essere bravo a creare il giusto mix.
A livello locale le scelte strategiche vanno fatte, ad esempio, nella programmazione del territorio, leggesi Prg. E su questo andrebbero fatte delle riflessioni. Innanzitutto per quanto riguarda le regole. Serve, quanto meno, una visione sovracomunale. Quello che vale per Cesena deve valere anche per Savignano, Forlimpopoli o Forlì. Serve, in particolare, alle aziende che dovendosi muovere nell’ambito di un quadro normativo unico avrebbero minori difficoltà.
Per quanto riguarda la programmazione territoriale invece si può ancora ragionare a livello comunale, anche perché, al momento, di margini di sviluppo ce ne sono pochi. È finito il tempo in cui c’era la corsa alla cementificazione e alla disperata ricerca di aree. Adesso non è più così. E non solo per la crisi e nemmeno per un presunto vetero ambientalismo. Il tutto per un combinato disposto costituito da vari elementi. Innanzitutto la popolazione non cresce. Anzi, se non ci fossero gli immigrati diminuirebbe. Poi c’è la riqualificazione. Un tempo gli amministratori che dovevano disegnare la città del futuro avevano a disposizione quasi solo dei terreni, soprattutto agricoli, da scegliere per farli diventare nuove zone residenziali o produttive. Adesso no, ci sono intere aree già edificate che devono essere solo riqualificate. In alcuni casi ristrutturando l’esistente, in altre facendo un lavoro molto più integrale che passa attraverso una demolizione (totale o parziale) e ricostruzione. Tutto, comunque, attraverso piani regolatori che se non sono a consumo zero del territorio poco ci manca. E l’impressione è che questo non varrà solo per questo particolare momento, ma sarà l’elemento caratterizzante anche della programmazione territoriale del futuro remoto.
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