di Guido Tampieri – da Setteserequi 18/3/2016
Giustizia e generosità non si esprimono che nei cuori già liberi e nelle menti ancora lungimiranti. Formare quei cuori e quelle menti, o piuttosto risvegliarli, è il compito, insieme modesto e ambizioso, che pertiene all’uomo indipendente.
Camus
Nemmeno Renzi saprebbe dire cosa è il Pd. Ammesso che gli importi. Non se sia di sinistra, che uno se la canta e se la suona, ma qual’è la sua essenza. Carne, ossa. E anima. Perché i partiti hanno un’anima, anche se nessun Concilio l’ha deciso, o, almeno, ce l’hanno le persone che vi aderiscono. Sempre meno, in verità. La decisione di votare non è necessariamente il risultato di una condivisione emozionale, sempre più spesso ubbidisce a un impulso civile. Si vota perché è giusto farlo, a volte per scongiurare un male maggiore. La disaffezione nasce dalla de-identificazione politica. Nel Pd questo processo, con motivazioni uguali e opposte, è in corso da tempo, senza che vi corrisponda una re-identificazione altrettanto forte. La fine delle ideologie non c’entra, le persone si, molto. Di sbagliato nei rilievi di D’Alema c’è soprattutto il pulpito. Lui e i suoi non sono innocenti. Il 18 maggio 2008 all’assemblea regionale del Pd cercavo parole per oltrepassare il muro. «Nel mito della caverna di Platone il filosofo, dopo aver scoperto la verità sulla falsa percezione del mondo, torna nella grotta per annunciarla ai vecchi compagni ancora prigionieri delle apparenze, ma loro non vogliono ascoltarlo e lo uccidono. Spero in un esito meno cruento. Parlo per difendere la fede non per minacciarla. Dal voto abbiamo la conferma che la scelta di dar vita al Pd è stata giusta. La nostra responsabilità è ora più grande. Siamo legati al Pd da un rapporto di fiducia che si rinnova ogni giorno, attraverso il progetto è il rispetto. Non ci sono tra noi vincoli di sangue. Apparteniamo al Pd in quanto ci appartenga. Dobbiamo guardare fuori e ascoltarci dentro. Ci sono rischi di scollamento di quel che non è ancora ben incollato e di estraniazione dai modi e dai contenuti del nostro dibattito. Se un uomo tranquillo come, in corsia di decelerazione esistenziale per coltivato convincimento, che crede nel rinnovamento e lo pratica perché conosce il valore dell’esempio, fatica a riconoscere quella cosa nuova e bella che avevamo immaginato, credetemi, dobbiamo fare qualcosa per raddrizzare il legno. Quello di cui siamo fatti non profuma sempre di fresco. Appartengo alla generazione di prima dello smog, sono cresciuto in campagna, so distinguere gli odori e le loro sorgenti. Non abbiamo bisogno di quiete. Abbiamo bisogno di confronto, di idee. Di far prevalere la generosità sull’avarizia, la curiosità sulla pigrizia. Senza dividerci, con fiducia. Dobbiamo darci criteri che riconoscano il merito e la rappresentatività. Per alzare la qualità della nostra proposta e non diventare un partito senza società. La questione non è se si debba andare avanti o indietro. Indietro c’è il deserto. Solo avanti ci sono i pozzi d’acqua. Il problema è come trovarli. Quale cultura politica, quale visione della società e dei suoi bisogni. Salendo dal piano sdrucciolo dei simboli a quello solido dei contenuti. Come organizziamo questa ricerca? Bersani ha parlato di una struttura che assicuri la libertà di pensiero. Mi pareva che la civiltà occidentale avesse già maturato questa acquisizione. Più che un traguardo mi piace considerarla una condizione d’appartenenza. Ci mancherebbe che avessimo fatto tanta strada, ci fossimo liberati di catene ideologiche, di limitanti rituali, di forzosi unanimismi, per ritrovarci privati della più alta delle libertà. Mi aspetto non solo che ci venga riconosciuta o, per meglio dire, ce la riconosciamo, ma che l’apprezziamo come la più preziosa delle risorse. Per renderla effettiva dobbiamo darle delle sponde culturali. La prima è un’idea di democrazia che non si esaurisce nella scelta di un leader e nel rapporto fra oligarchie. La democrazia è la nostra essenza costitutiva. Se non c’è non manca qualcosa, manca tutto. La forza acquisita con le primarie va restituita ai nostri aderenti: è solo in prestito. Dobbiamo offrirle altri momenti e altre forme espressive. Poi ci vuole l’animo per farle vivere. Serve un rapporto che mette a confronto argomenti e non categorie semantiche. Tu sei il vecchio io sono il nuovo, noi siamo il partito voi non so cosa, non sono argomenti, non sono rispettosi né dell’interlocutore né dell’autenticità della ricerca. Infine una notazione genetica. Un partito radicato nella società ha bisogno di «uomini e donne di grande livello capaci di frequentare la modestia». Sono parole di Tabucchi, esprimono l’aspirazione a ciò che troppo spesso non è. Dovremo tornare al noi, sostituire all’assertività dell’io, all’ultimatività del voglio, la comunione del noi e la saggezza del vorrei. Si fanno tante analisi, ma qui è una delle chiavi del radicamento e dell’identità che cerchiamo. La gente deve poter dire: «mi fido di voi». Eravamo a pochi mesi dalla nascita del Pd. Ancora in tempo per non scivolare lungo l’asse inclinato dell’incomprensione, per non finire in una terra inaridita dove si preferisce contarsi anziché confrontarsi, vincere anziché convincere. Un luogo dove svaniscono le domande e muore la vita. Dove perde chi resta e chi se ne va, chi comanda e chi contesta. L’origine è davanti a noi, scrive Heidegger, nasce dalle domande, non dalle risposte di chi pensa di possedere delle verità. Veltroni, D’Alema, Bersani, Renzi. Diversi i modi e i pensieri, uguali le responsabilità. La missione era di rimuovere le barriere di un tempo. Se ne sono costruite di nuove. Così non può continuare, tuona un’onorevole non so chi dal trionfale accento toscano, è tempo di eliminare dal Pd «quelli che non sono opportuni». Per un partito che doveva raccogliere l’eredità dell’Ulivo, unire sensibilità diverse e dar vita a una cultura politica nuova è un bel risultato. Potevamo risparmiarci la fatica. Restare a Togliatti. O diventare Grillo. …continua
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