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Ricordo di Olindo Guerrini nel centenario della sua scomparsa

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A 100 ANNI DALLA SCOMPARSA DI OLINDO GUERRINI
IL RICORDO DI UN ROMAGNOLO DAI MILLE VOLTI E DALLE MILLE PASSIONI
di Marco Viroli e Gabriele Zelli

«Sono nato (ahimè!) a Forlì; ma la mia vera patria è Sant’Alberto, 15 km al nord di Ravenna, dove i miei avi hanno sempre vissuto» (O. Guerrini, “La mia giovinezza”, Zanichelli, 1916).

Può apparire non certo come una dichiarazione d’amore per la nostra città questa affermazione di Olindo Guerrini, tratta dalle sue note autobiografiche. In realtà, a voler leggere tra le righe, in quell’«ahimè!» si potrebbe anche intravedere una malcelata vena di malinconia, un lamento di nostalgia per la città natia, da cui proveniva la madre Paola Giulianini.
Olindo Guerrini nacque a Forlì il 4 ottobre 1845, nella casa della famiglia materna, che si trovava nell’attuale corso Diaz al numero 116, nel palazzo divenuto tristemente famoso perché, nell’aprile del 1988, fu teatro dell’efferata uccisione del senatore Roberto Ruffilli a opera di un commando delle Brigate Rosse.


Pur essendo nato nel giorno consacrato a San Francesco, uno tra i santi più importanti della storia della Chiesa cattolica, da buon romagnolo, cresciuto al termine di oltre tre secoli di dominazione pontificia, Guerrini fu sempre animato da sani principi anticlericali.
Nacque, come si diceva, a Forlì perché la madre volle fare ritorno alla casa dei genitori per partorire e per poi essere aiutata nello svezzamento, nei primi mesi di vita del figlio.
Appena il bimbo compì il primo anno, Paola e il figlioletto rientrarono a Sant’Alberto di Ravenna, dove Angelo, padre del futuro poeta, gestiva la farmacia del paese. Qui Olindo trascorse la propria infanzia, quindi, dopo aver appreso in casa «i primi rudimenti di grammatica e di geografia», venne affidato ai religiosi del collegio municipale di Ravenna, che frequentò per cinque anni. Non furono anni facili per il giovane Guerrini che già manifestava un carattere irrequieto e insofferente a quel tipo di educazione che egli stesso definiva «pedante e formale … La religione era seccante per pratiche esteriori infinite, le quali mi resero odioso per tutta la vita il culto ed i suoi ministri in genere». Tanto si spinse oltre che finì espulso dal collegio per indisciplina.
Nel 1859, per cercare di correggerne l’esuberanza, il padre lo iscrisse al collegio nazionale di Torino. Sotto la Mole Antonelliana il giovane Olindo frequentò le classi del ginnasio ma, al secondo anno di liceo, abbandonò momentaneamente gli studi per dedicarsi a un periodo di «scioperataggine».


Dopo essere riuscito faticosamente a ottenere la licenza, nel 1865 si trasferì a Bologna e si iscrisse all’Università. Nonostante lo scarso interesse che nutriva per quel tipo di studi, Olindo si laureò in Giurisprudenza ed entrò in uno studio di avvocati. Ben presto però comprese che la pratica forense non faceva per lui. Fu in questo periodo che iniziò allora a prendere parte alle lotte politiche. Negli anni 1870, 1872, 1879 e 1883 venne eletto consigliere comunale a Ravenna e, quando nel 1873-74 fu anche assessore, si impegnò per dar vita alla sezione dei pompieri. A Sant’Alberto poi fondò una Biblioteca popolare, tuttora operativa all’interno di “Casa Guerrini”, la casa paterna del poeta, e che si avvale di un patrimonio di 2.066 volumi.
Nel 1872 fu iniziato in Massoneria nella Loggia “Dante Alighieri” di Ravenna. Si stabilì poi definitivamente a Bologna, dove fu raggiunto dai genitori, trovando occupazione presso la locale Biblioteca Universitaria, della quale divenne in seguito direttore.

Nel 1874 collaborò col giornale satirico bolognese «Il Matto». Nello stesso anno si sposò con Maria Nigrisoli dalla quale ebbe tre figli: Angiolina, morta a quattro anni, Guido, futuro medico e cattedratico, e Lina.
Dopo il matrimonio si dedicò, come ebbe egli stesso a scrivere, a una «vita studiosa tra la biblioteca e la casa, badando all’educazione dei figli», distraendosi «con lunghe gite in bicicletta, lavoretti di fotografia e cure della sua villa a Gaibola».

Nel 1877 pubblicò “Postuma”, un volume di versi che, nella prefazione, Guerrini attribuiva al cugino Lorenzo Stecchetti, morto di tisi a trent’anni. In realtà fu questo il primo, e il più fortunato, di una serie di pseudonimi con cui diede alle stampe gran parte delle proprie opere. Grazie allo scandalo che suscitò per l’audacia dei toni erotici e per gli atteggiamenti dissacratori e blasfemi, “Postuma” conobbe un enorme successo, facendo registrare ben 32 edizioni. Il libro ebbe un successo di vendite maggiore delle “Odi barbare” di Carducci e il successo crebbe quando, ben presto, si venne a sapere che l’autore di quest’opera ardita, sia per stile sia per temi trattati, era lo stesso Guerrini.
Amico e ammiratore di Giosuè Carducci, la sua opera ebbe tra i contemporanei grande risonanza per via della poetica verista in netta contrapposizione con romantici e idealisti, e per gli atteggiamenti anticlericali e socialisteggianti.
Sulla falsa riga di “Postuma”, sempre sotto lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti, nel 1878 diede alle stampe altri due volumetti, “Polemica” e “Nova polemica”, i cui versi viaggiavano sul medesimo registro provocatorio del precedente lavoro, densi di denuncia e di satira del conformismo morale, religioso, sociale.
Dopo avere curato l’edizione dei “Versi di Guido Peppi poeta forlivese del sec. XV” , nel 1879 pubblicò l’ampia monografia “La vita e le opere di Giulio Cesare Croce”, l’autore del “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”).
A quattro mani con Corrado Ricci, che lavorò sotto la sua direzione nella Biblioteca Universitaria di Bologna, dopo il volume “Studi e polemiche dantesche” (1880), nel 1882 pubblicò “Giobbe, serena concezione di Mario Balossardi”, poemetto giocoso in quattro canti, in polemica con Mario Rapisardi, autore del poemetto omonimo del quale l’opera firmata Guerrini-Ricci vuole essere una spiritosa parodia.
Nel 1887 divenne Maestro massone nella Loggia “Otto Agosto” di Bologna, raggiungendo i più alti gradi e livelli dell’associazione.


Alla maniera di quanto avrebbe fatto qualche anno dopo Ferdinando Pessoa in Portogallo, oltre a quello di Lorenzo Stecchetti, Guerrini si servì di altri eteronimi e inventò molteplici maschere per firmare molte delle sue composizioni: Argìa Sbolenfi, Marco Balossardi, Giovanni Dareni, Pulinera, Bepi e altri ancora.
Nel 1889 fu eletto membro del consiglio provinciale scolastico di Bologna ma solo due anni dopo diede le dimissioni per ritirarsi a vita privata. Firmando con lo pseudonimo Mercutio, scelse di dedicarsi all’impegno giornalistico, pubblicando sia su testate nazionali sia su fogli, per lo più satirici, a distribuzione locale.
Al 1897 risalgono le “Rime” di Argia Sbolenfi, pseudonimo ricavato dal nome della sedicente figlia di un personaggio bolognese, con il quale Guerrini aveva deciso di firmare le sue cose peggiori. Fu per un sonetto (“Parla il pastore”) scritto con questo eteronimo che nel 1898 gli fu intentata una causa per diffamazione dall’allora vescovo di Faenza, monsignor Giovacchino Cantagalli. Dopo una condanna in primo grado al pagamento di una multa di 250 lire, Guerrini ricorse in appello e fu assolto.
Nel 1908, infine, con un nuovo pseudonimo, Pio X (il papa!) Guerrini firmò l’ultimo lavoro, “Le ciacole di Bepi”, scritte in dialetto veneto.

Nel corso della sua vita Guerrini utilizzò anche il dialetto romagnolo, raggiungendo una notevole efficacia nel descrivere la psicologia dei suoi conterranei. Ne sono prova i “Sonetti Romagnoli”, pubblicati postumi nel 1920 dal figlio Guido.

Oltre alla scrittura, specie in versi, altre due grandi passioni che attraversarono la vita di Guerrini furono la fotografia e la bicicletta, due passioni che in quegli anni erano sinonimo di modernità.

Ottimo fotografo dilettante, tra i soggetti che preferiva vi erano senza dubbio le donnine per la strada, anche se si dilettò con la ritrattistica, immortalando in pose sarcastiche parenti e amici, e spesso anche sé stesso. Per questa sua grande attenzione nei confronti di quella che stava diventando una nuova arte, Guerrini fu chiamato a ricoprire la carica di primo presidente del Circolo Fotografico Bolognese, fondato nel 1896.

La passione per la bici lo portò a essere capoconsole del Touring Club Italiano che, all’epoca, si chiamava Touring Club Ciclistico Italiano e a comporre una raccolta di scritti dall’eloquente titolo “In bicicletta. Scritti vari di argomento ciclistico”.

Uomo dai molteplici interessi, Guerrini fu anche grande appassionato di cucina. Scrisse sul tema diverse opere e intrattenne una fitta corrispondenza con Pellegrino Artusi, romagnolo di Forlimpopoli, emigrato a Firenze, padre della cucina italiana. In particolare, negli ultimi anni di vita lavorò a una raccolta di ricette sulla cucina povera, uscita postuma nel 1918, dal titolo “L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa”.

Scoppiata la Grande guerra ma essendo troppo in là con gli anni per prendervi parte, offrì il proprio servizio ove occorresse. Per questo il 28 novembre 1914 si dovette trasferire a Genova, dove era stato chiamato come bibliotecario. Ammalatosi di tumore alla gola, nel 1915 fece ritorno a Bologna dove cessò di vivere il 21 ottobre 1916.

«Non c’è arte al mondo che possa esprimere il piacere, direi quasi la voluttà, della vita libera, piena, goduta all’aperto, nelle promesse dell’alba, nel trionfo dei meriggi, nella pace dei tramonti, correndo allegri, faticando concordi, sani, contenti. Ahimè, poeti e gobbi si nasce e non si diventa. […] Mettetevelo in mente voi che vi guardate la lingua, vi tastate il polso, seccate il medico e ingrassate il farmacista. Andate in bicicletta coi figli e dopo un mese digerirete le cipolle crude. Ve lo dico io» (Olindo Guerrini).

 

 

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