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Gabriele Zelli ricorda l’anniversario della nascita e l’insegnamento della dovadolese Benedetta Bianchi Porro

Alla presenza del Cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo metropolita di Ancona-Osimo, che ha celebrato la Santa Messa all’Abbazia di Sant’Andrea (La Badia) di Dovadola, domenica 22 gennaio è stata ricordata Benedetta Bianchi Porro in occasione dell’anniversario della morte avvenuta a Sirmione il 23 gennaio 1964.
Della Venerabile dovadolese è stato scritto che è stata “la più chiara manifestazione del paradosso cristiano; la vita attraverso la morte, la potenza attraverso la debolezza, la conquista attraverso la perdita, la realizzazione di sé stessa attraverso il proprio annientamento. (…) Lungi dall’essere isolato e solo, il suo letto divenne un pulpito dal quale Benedetta “predicava senza predicare” lezioni di pazienza, umiltà, fortezza…”. In effetti di fronte alla testimonianza di Benedetta tutti coloro che vengono a contatto con la sua storia si mettono nella condizione di pensare che le parole “suonano povere, ci si sente diminuiti, impari al proprio compito è non si può che ascoltare e tacere”. Ma i gravi problemi sociali che attanagliano le nostre collettività e quelle di tutto il mondo ci devono anche spingere a trovare le giuste motivazioni per un impegno di carattere civile affinché tutti coloro che vivono situazioni di disagio non si sentono soli. A Dovadola c’è lo hanno insegnato nei giorni scorsi i trecento giovani che hanno partecipato al raduno degli Oratori Don Bosco. Per cinque giorni li ho visti attivi come non mai nel campo della solidarietà (hanno raccolto 300 quintali di cibo prontamente inviato alle loro missioni in Perù), così come si sono cimentati in campo culturale e religioso. A dimostrazione che le differenze, le diffidenze e le difficoltà si possono affrontare. Occorre prendere il bandolo giusto della matassa, che per Benedetta è stato il vivere pienamente la propria esistenza. Insegnamento che vale anche per tutti noi.

Benedetta Bianchi Porro
(da “Personaggi di Forlì. Uomini e donne tra Otto e Novecento. vol. 2” di Marco Viroli e Gabriele Zelli)

Benedetta nacque l’8 agosto 1936 a Dovadola, figlia di Guido Bianchi Porro ed Elsa Giammarchi, prima di cinque fratelli, Gabriele (1938), Manuela (1941), Corrado (1946) e Carmen (1953) che, insieme al fratellastro Leonida (1930), restarono per lei un costante punto di riferimento.
Quando aveva solo pochi mesi, Benedetta fu colpita dalla poliomielite che le causò l’accorciamento della gamba destra.

Nell’introduzione al libro “Siate nella gioia”, padre David Maria Turoldo che ne tracciò un “profilo spirituale”, della sua adolescenza scrisse: «Da bambina Benedetta era come tutte le altre fanciulle, per quanto di accentuata sensibilità già quasi materna. Forse il fatto di essere stata, sin dai primi mesi, colpita dal male, già poteva accelerare in lei, inconsciamente, quel processo di maturazione che la rendeva molto presto pronta alla parte singolare che dovrà vivere, con naturalezza, al tempo della sua passione. È una bambina simpatica e graziosa, vivace e delicata, particolarmente attenta ai richiami della madre. Con voglia di giocare e di godere le cose più semplici e belle. Capace di essere felice per un nonnulla e incline ai sentimenti più profondi. Sempre posseduta da una grande volontà di capire, studiosa e diligente. Una fanciulla fedele e fidata, con prematuro senso della responsabilità».

Fin dall’infanzia fu costretta a numerosi spostamenti, sia per il lavoro del padre ingegnere che si occupò della costruzione delle terme di Sirmione del Garda sia a causa della guerra che portò la famiglia a rifugiarsi inizialmente a Forlì, nella casa dei nonni, poi a Casticciano, località nei pressi di Bertinoro.

Nei suoi diari, tenuti su esortazione della madre, trapelano le ansie e le preoccupazioni per il passaggio del fronte e per i devastanti bombardamenti: «Sono passati tanti aeroplani: i miei genitori sono a Forlì e gli inglesi hanno bombardato la città e io ho pena per i miei». «Il cielo oggi ha voglia di piangere; sono stata a giocare accanto al rifugio». «Hanno mitragliato Forlì e la mamma era laggiù». «I tedeschi sono partiti». «Sono contenta perché oggi non si è sentito bombardare». «Sono tornati i tedeschi con dei cavalli. Stanotte o domani vengono ad abitare qui». «Mentre dormivo è venuto un tedesco a cercare dei locali». «Tutti i giorni degli apparecchi mi girano sulla testa». «Il babbo questa mattina è stato nel campo con gli altri uomini, perché i tedeschi li volevano portare via». «Forse vanno via i tedeschi». «Sono entrati gli inglesi e noi siamo contenti». «Gli inglesi hanno occupato la città di Faenza e di Ravenna. Fa molto credo (siamo nel novembre 1944, ndr)». «Ho mangiato una cicca americana. Il cielo è nuvoloso».

Benedetta aveva appena compiuto otto anni e frequentava la quarta elementare quando, il 4 dicembre 1944, lasciò Casticciano e tornò a Dovadola, ospite del nonno, per continuare a frequentare la scuola, mentre la famiglia si trasferì a Forlì.

Quando nel mese di gennaio del 1945 Benedetta raggiunse i genitori si ammalò di paratifo. Rimase con la famiglia per tutta la durata della malattia che si rivelò lunga e grave. Solo verso la fine di marzo poté tornare a frequentare la scuola che le suore Dorotee di Forlì avevano appena riaperto. Suor Alberta, una religiosa dell’ordine, la seguii fino all’esame di ammissione alla prima media che Benedetta superò il 24 giugno 1946.

I frequenti spostamenti della famiglia imposero a Benedetta di frequentare la prima media a Brescia dalle suore Orsoline, la seconda e terza media e la quarta e quinta ginnasio a Forlì presso la scuola pubblica “Flavio Biondo”, la prima e seconda liceo al “Girolamo Bagatta” di Desenzano del Garda. In ognuno di questi luoghi Benedetta strinse amicizie che dureranno nel tempo.

Mentre stava frequentando la seconda liceo, precisamente nel febbraio del 1953, cominciò a perdere l’udito. Così scriveva nel suo diario: «Oggi (13 febbraio, ndr) sono stata interrogata in latino: ogni tanto non capivo quello che il professore mi chiedeva». Qualche giorno dopo, il 19 febbraio, continuava : «Non ho capito quasi niente la lezione di arte… Che figura devo fare ogni tanto. Ma cosa importa? Un giorno forse non capirò più niente di quello che gli altri dicono, ma sentirò sempre la voce dell’anima mia: e questa è la via che devo seguire».

Nonostante questa situazione difficile, quasi a precorrere il male che avanzava, nell’estate del 1953 studiò per “saltare” la terza liceo, tanto che nel mese di settembre superò brillantemente gli esami di maturità e si iscrisse alla facoltà di Fisica presso l’Università di Milano, per passare quasi subito dopo a quella di Medicina.

La scelta di iscriversi a Fisica fu dettata dal desiderio di accontentare il padre ma la matematica non le era congeniale e «i giorni passavano ed io ero sempre presa dal terrore, dall’angoscia di doverla studiare tutta la vita… Non potevo resistere. Andai allora ad alcune lezioni di varie facoltà ed infine, nonostante molti mi avessero sconsigliato, decisi per medicina… Affrontai il nuovo studio con ardore, avevo sempre sperato di diventare un medico! Voglio vivere e lottare per tutti gli uomini».

Essendo però nel frattempo diventata quasi completamente sorda, le difficoltà aumentarono e a poco serviva farsi accompagnare da Anna, la domestica, la quale poteva solo rispondere all’appello. Ciò la gettò in uno stato di sconforto che la portò a scrivere: «Stasera (1 gennaio 1954, ndr) sono molto triste se penso che non riuscirò a resistere tutta la vita così sorda: un rimedio, qualunque sia, bisogna che lo trovi al più presto».

Nel 1955 venne presa in cura da un neurologo e contemporaneamente continuò a frequentare i corsi, ma nel 1956 si manifestarono altri gravi sintomi. Fu da questo momento che, secondo tutti coloro che hanno studiato la vita di Benedetta, iniziò per lei un vero e proprio calvario. Aveva 20 anni. Gli esami medici furono innumerevoli, così come i ricoveri in ospedale. Subì un primo intervento molto delicato alla testa.

Alcuni testimoni hanno raccontato che Benedetta riuscì a intuire la vera natura del male che l’affliggeva e che nessun medico era riuscito a diagnosticare. Una sera mostrò a un’amica di famiglia la fotografia di un uomo affetto dal morbo di Recklinghausen dicendo: «La mia malattia è questa, ma non mi credono».

Nel frattempo aumentarono le sue difficoltà motorie e diminuirono ulteriormente l’udito e la vista. Tuttavia, fra un’operazione e l’altra, riuscì a continuare a frequentare l’Università; «Rinunciare mi parrebbe una viltà».

Dovette però arrendersi quando, in occasione del diciannovesimo esame, la paralisi progressiva degli arti la bloccò definitivamente. Da quel momento rimase immobile, prima su una poltrona, poi a letto fino alla fine dei suoi giorni. Ma non si diede per vinta, come si può dedurre dagli scambi epistolari con amici e amiche che assumeranno, con il passare del tempo, la forma di una profonda riflessione, rivolta a dare un senso alla propria condizione ma anche alla vita delle persone che la circondavano.

Così, nelle condizioni in cui si trovava, non è azzardato dire che iniziò a riordinare sogni e valori che avevano determinato le sue scelte, rafforzandole con la consapevolezza che tutto viene da Dio, anche i destini degli uomini, così come dice il passo evangelico: «Se il chicco di frumento caduto nella terra non muore, resterà solo; ma se muore, allora porterà molto frutto».

A testimonianza di tutto ciò, come si è detto, vi sono le sue lettere. Un giorno scrisse a un’amica: «È però vero che la vita in sé e per sé mi sembra un miracolo con tutte le sue cose e vorrei poter innalzare sempre un inno di lode a Chi me l’ha data come vorrei farti capire quello che provo; conosci il Cantico delle creature di San Francesco di Assisi? È semplicemente sublime. Eppure io non innalzo un inno di lode di nessun tipo. Certe volte penso se non sia io una di quelle a cui… molto è stato dato e molto sarà chiesto!».

E fu proprio in questo modo che continuò ad affrontare la vita, giorno dopo giorno: «Tanto per non smentirmi, ho ripreso a studiare, ma per ora pochissimo. Lo faccio anche per passare il tempo. Per il resto sto leggendo tutte le novelle di Cechov – la letteratura russa è la mia passione – o dipingo, ma senza nessuna ambizione (oggi i pittori vengono fuori come funghi)… Credimi, sono assolutamente un niente, con in più una fastidiosa sordità che mi fa sembrare ancora più oca. Però chissà cosa darei per arrivare in fondo ad esercitare… anche come l’ultimo dei medici». E ancora: «Chissà perché spesso sento dire che più si è intelligenti e più si apprende, meno si è felici. Non è vero… Non c’è felicità senza la coscienza di essa; anzi la coscienza della mia propria felicità mi inebria, e mi dà attimi di vera estasi spirituale. Certe volte ne ho persino timore, timore di perderla facilmente, per averla acquistata a troppo piccolo prezzo. Ho letto recentemente nel “Monaco nero” di Cechov che il protagonista temeva che la sua felicità potesse provocare – come dire – la collera degli dèi; quasi che la felicità non fosse uno stato d’animo giusto per un uomo. Ebbene così è anche per me, talvolta. Ma non pecco io forse di superbia per questo mio pensiero? Io penso: che cosa meravigliosa è la vita (anche nei suoi aspetti più terribili); e la mia anima è piena di amore e di gratitudine verso Dio, per questo!».

Il 29 giugno 1958 Benedetta sostenne, con esito negativo, l’ultimo esame prima della laurea. Si ripropose di sostenerlo nuovamente, ma non ci riuscì a causa del procedere inarrestabile della malattia che la portò, il 7 agosto 1959, a essere operata al midollo spinale, con conseguente paralisi totale degli arti inferiori.

Il male non le diede scampo. Morì il 23 gennaio 1964 a Sirmione, dopo aver chiesto alla madre di leggerle l’Atto di offerta di Santa Teresa di Lisieux. In quello stesso momento una rosa bianca (ora simbolo di Benedetta) fiorì in giardino fuori stagione.

Nel corso degli ultimi suoi anni di vita aveva comunicato soltanto tramite un flebile filo di voce e quell’alfabeto muto fatto di gesti convenzionali che le erano stati trasmessi grazie a una mano che le era rimasta miracolosamente sensibile. Eppure la forza spirituale che la mosse fu così grande e contagiosa che la sua stanza si trasformò, come è stato scritto «in un crocevia di vite, di esperienze e di comunicazione fraterna». Benedetta dal suo “letto di dolore” aveva la forza di dire: «Vi seguo tutti, io così inoperosa, e vi tengo vicino al cuore, sotto le mie coltri. Mentre voi camminate col tempo».

Il 22 marzo 1969 la sua salma fu traslata nell’Abbazia di Sant’Andrea (la Badia) di Dovadola e collocata in un sarcofago di terracotta con altorilievo in bronzo, opera dello scultore Angelo Biancini di Castel Bolognese. La Badia è da allora meta di continui pellegrinaggi. Non deve meravigliare quindi se, il 25 gennaio 1976, fu iniziato il suo processo di Beatificazione nella Cattedrale di Forlì e se, il 23 dicembre 1983, papa Giovanni Paolo II approvò il decreto sull’eroicità delle virtù di Benedetta che venne dichiarata “Venerabile” e fu inclusa fra i “Testimoni della Chiesa del Novecento”.

Oggi, affinché la Chiesa possa procedere alla sua Beatificazione, si attendono le valutazioni riguardo a un miracolo a lei attribuito che si sarebbe verificato a Genova.

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