Il sociologo De Masi rilancia le 36 ore, ma non le inserisce in un progetto complessivo. Serve invece disegnare un nuovo welfare e creare soluzioni occupazionali alternative
Non ci provate. Domenico De Masi, sociologo corteggiato dai 5Stelle, torna a proporre lo slogan “lavorare meno e lavorare tutti” per dare una risposta ai problemi di disoccupazione che provocherà l’industria 4.0. Fin qui tutto bene. Il problema è che De Masi pensa che la riduzione dell’orario di lavoro coincida con un calo del netto in busta paga. In pratica, dei problemi provocati dall’innovazione dovrebbero farsene carico gli operai. Ma per favore. È una visione assurda. Il problema è che c’è qualcuno che lo ascolta. Quel qualcuno è Beppe Grillo.
Lo ha detto lo stesso De Masi in un’intervista a La Stampa. Racconta che, sollecitato da due parlamentari grillini, ha fatto una ricerca sociologica per capire come evolverà il lavoro fra dieci anni. Il rapporto è finito nelle mani di Grillo che gli ha chiesto di incontrarlo. C’era anche Casaleggio. Si sono confrontati per tre ore.
Il metodo va bene. Quello che non va bene sono le conclusioni di Bechis che appaiono in contraddizione con se stesse. Il sociologo richiama il filosofo Aristotele che sosteneva che lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero. Il ragionamento non fa una piega, il problema è che se tu hai tempo libero e non ha i soldi per arrivare a fine mese sei solo nei guai. Ed è quello che succederebbe se la contrazione dell’orario coincidesse, come De Masi pensa, alla diminuzione dello stipendio.
Se così non è va detto chiaramente. Ma, allora, non si capirebbe il perché di tanta pomposità attorno alla proposta delle trentasei ore. In quel caso non andrebbe chiamato studio, ma copia/incolla di qualcosa che periodicamente è riproposto. E che potrebbe essere interessante se i costi fossero a carico dello Stato.
Però quando si parla di industria 4.0 il ragionamento va affrontato in modo articolato. Non in una sola direzione. Se la proposta è monca rischia di creare più problemi che altro. Dobbiamo chiederci di che welfare ci sarà bisogno e di come finanziarlo. Soprattutto in considerazione del fatto che le diseguaglianze sono destinate ad aumentare tra una minoranza padrona della tecnologia e un esercito, se va bene, di precari.
Poi bisogna attrezzarsi per cercare di limitare i danni. Servono politiche espansive nei settori high tech, nel sistema formativo, in ricerca, anche per indurre a cascata nuovo lavoro in altre direzioni: tempo libero, cultura, sostenibilità ambientale. Scenario che potrebbe richiedere maggiori connessioni, sinergie e coordinamento, al posto della competizione, da sempre motore genetico del sistema capitalistico.
Il problema non si risolve con soluzioni estemporanee, ma con il lavoro di gruppo. Adesso più che mai non serve l’uomo solo al comando. Serve socialità, dialogo, condivisione. Però non domani, ma subito. Perché siamo già in grave ritardo. Perché ha ragione Giovanni Monti, presidente Legacoop Emilia Romagna quando dice che il 65 per cento dei bambini che inizia il ciclo scolastico da grande farà un lavoro che non conosciamo.
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