La drammatizzazione teatrale “Il boia nazista a Roma e a Forlì”, che ricostruisce gli orrori degli eccidi nazifascisti nella capitale e nel Forlivese, messa in scena sabato 28 settembre scorso in occasione del Festival del Buon Vivere, ha suscitato molto interesse nelle 200 persone che hanno assistito allo sforzo compiuto dall’Associazione Sartoria Teatrale di rievocare una delle pagine più drammatiche del Secondo conflitto mondiale. Sotto la regia di Stefania Polidori, che si è avvalsa della collaborazione di Davide Conti, storico, di Gabriele Zelli, cultore di storia locale, e di Laura Bignardi, le voci recitanti di Matteo Bartolini, Rosario Bassi, Davide Conti, Gianluigi Giorgetti, Isabella Giorgi, Enrico Illotta, Stefania Polidori, Alessandro Russo, Domenico Scibilia, Gabriele Zelli, hanno saputo dare spessore ai protagonisti degli eventi storici avvenuti a Roma e a Forlì, così come la parte musicale, curata di Dario Bettini e Marco Fiori, è stata in grado di far risaltare il susseguirsi degli eventi
La lettura di documenti e di testimonianze storiche ha consentito agli spettatori di seguire tragiche e dolorose vicende che vanno dal rastrellamento degli ebrei a Roma all’eccidio delle Fosse Ardeatine, dall’istituzione di un carcere delle SS naziste nell’ex brefotrofio di Forlì alle fucilazioni di ebrei, antifascisti e partigiani in via Seganti al Ronco (oltre 40) avvenute esattamente 75 anni fa.
In particolare è stata messa in evidenza la storia sommersa e macchiata di sangue del nazista Karl Schütz che unisce le vicende della capitale alla nostra città, essendosi macchiato da entrambe le parti, insieme ad altri, di eccidi e di carneficine senza che ne abbia risposto penalmente davanti a nessun tribunale.
Per raccontare le vicende forlivesi gli autori della drammatizzazione si sono avvalsi del diario di Oreste Casaglia catturato nell’agosto 1944 e rinchiuso nell’Istituto Provinciale per l’Infanzia di viale Salinatore che era stato trasformato in carcere da un gruppo di SS naziste. Quella di Casaglia è una figura da riscoprire, così come varrebbe la pena ristampare la sua testimonianza.
Seguendo la famiglia – il padre era un funzionario della Banca d’Italia di origini piemontesi – Oreste Casaglia (Lecce 1896 – Forlì 1946) arrivò nella nostra città in età scolare. Si diplomò al liceo e nel frattempo maturò un forte spirito patriottico e repubblicano. Non a caso allo scoppio della guerra si arruolò nei granatieri di Sardegna come soldato semplice, rifiutando di fare l’ufficiale per non prestare giuramento al re, volendo così evidenziare l’attaccamento al Paese e l’avversione nei confronti della monarchia.
Terminato il conflitto continuò gli studi universitari laureandosi in giurisprudenza nel 1921 presso l’Università di Modena. Successivamente si dedicò alla professione di avvocato penalista che lo assorbì totalmente, relegando in secondo piano l’attività politica che del resto, con la conquista del potere da parte del Fascismo, impedì a Casaglia di partecipare alla vita pubblica nonostante possedesse brillanti doti umane e culturali. Al Fascismo non diede mai il suo appoggio. Nonostante ciò gli furono affidati alcuni incarichi di prestigio, anche se privi di potere reale, tanto che, durante il Ventennio, fu vice presidente dell’Associazione dei Volontari di Guerra forlivesi, presidente dell’Automobile Club Italia di Forlì e presidente dell’Ente Ospedaliero.
Quando il regime fascista entrò in crisi subito Casaglia si adoperò attivamente “per la causa antifascista ed antinazista”, come attesta una dichiarazione del Comitato di Liberazione Nazionale provinciale. Per incarico dello stesso C.L.N. assunse il compito rischiosissimo di difendere diversi perseguitati di fronte al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato e al Tribunale Provinciale Straordinario Repubblicano. Di quel periodo il figlio Luigi racconta: «Noi ragazzi non sapevano molto della sua attività, ma era chiaro che era schierato dalla parte che lottava per la libertà d’Italia. Né passavano inosservati i prigionieri inglesi che, fuggiti da qualche campo di concentramento, comparivano verso sera (nella villa della tenuta Vicchi Borghesi a Villagrappa dove la famiglia Casaglia si trasferì nel 1944 dopo che i bombardamenti alleati avevano colpito anche Forlì, n.d.r.), pernottavano nel fienile e ripartivano la mattina dopo accompagnati fino ai partigiani da mio fratello Nini. Si presentarono anche due soldati indiani con lunghi capelli annodati e barbe incolte. Per ragioni religiose non vollero tagliarsi le barbe né accorciarsi i capelli e dovettero quindi essere accompagnati con maggior pericolo, perché non sfuggivano neppure all’occhio più ingenuo. Una sera si presentò Corbari, capo partigiano della zona: era trafelato e chiese una bicicletta per fuggire più celermente. Gli fu data la bicicletta di mia madre, era un’Olimpya grigio chiaro nuova. Promise che l’avrebbe fatta restituire il giorno dopo. In seguito fu catturato e ucciso, gli erano accanto Iris Versari e gli amici Adriano Casadei ed Arturo Spazzoli, quest’ultimo fratello di Tonino Spazzoli, amico di mio padre. Mentre questi avvenimenti maturavano, dopo che Corbari aveva avuto la bicicletta, ma prima che fosse catturato, mio padre fu arrestato».
Era il 15 agosto 1944. Iniziò così la detenzione del prigioniero politico Casaglia Oreste nella cella numero 1 della prigione delle S.S. presso il brefotrofio di viale Salinatore. Per 17 giorni, come viene riportato nel libro “I giorni che sconvolsero Forlì. 8 settembre 1943 – 10 dicembre 1944” di Marco Viroli e Gabriele Zelli, subì interrogatori e violenze fisiche. In molti si adoperarono per salvarlo, compreso il vescovo. Di quella terribile esperienza scrisse un diario a pochi mesi dagli eventi tragici di quell’estate quando la quasi totalità degli antifascisti e partigiani che furono reclusi in quel luogo furono deportati nei campi di concentramento nazisti o, dopo inenarrabili torture uccisi in via Seganti, nei pressi dell’aeroporto. Il diario di Casaglia è un documento straordinario che dovrebbe essere consigliato come libro di lettura nelle scuole superiori. L’eccezionalità del documento fu sottolineata dallo storico Roberto Balzani nell’introduzione della pubblicazione edita nel 2004 con queste parole: «In primo luogo si tratta di una memoria ancora fresca, non meditata dalla lunga stagione della Repubblica e dagli scontri ideologici che seguiranno: Casaglia scompare nel 1946, quando ancora “la guerra fredda” non è neppure immaginabile, e ci restituisce perciò un quadro della Resistenza segnato da un marcato sforzo patriottico e unitario. In secondo luogo, l’avvocato è un cinquantenne ed appartiene ad un ceto medio-alto per gli standard dell’epoca: la sua percezione degli uomini, degli spazi, dei fatti s’impone al lettore per il suo nitore, per la sua chiarezza, per la sua razionalità. Nel descrivere i suoi compagni di cella, Casaglia non ha bisogno di molte parole: inquadra i personaggi, ne tratteggia il profilo psicologico, ne intuisce forza e fragilità. Avvocato, è abituato a farsi un’opinione rapida di chi gli sta di fronte (…)».
Nella stessa cella trovò il colonnello Edoardo Cecere e altri eroici martiri della Resistenza forlivese. Vale la pena riportare qualche brano del volume dal titolo SS – Cella numero 1. Diario della detenzione presso il carcere politico della SS tedesca – Agosto 1944, perché permette di ricostruire alcune vicende di quel periodo e di “scendere nell’animo di chi si impegnò”. Dei momenti immediatamente dopo la cattura e dopo essere stato rinchiuso in uno dei locali che fungevano da celle si legge: «Mi chiusi in me stesso pensando intensamente. La visione della mia casa, del giardino luminoso ove mi avevano arrestato poco prima, dei miei cari che mi avevano salutato cercando di nascondere sotto un sorriso forzato il pianto irrompente, mi sommerse di un’onda di commozione. La respinsi decisamente, compresi che la nostalgia di casa, dell’amore dei miei potevano essere ragioni di debolezza e divenire i miei peggiori nemici (…)».
Straordinarie restano le parole che usò per evidenziare la reazione che suscitò in lui vedere le sofferenze e le torture subite dai compagni di cella: «Volsi il pensiero a Dio e alle memorie più sacre. Il ricordo dei nostri grandi, di tutti i martiri del Risorgimento, mi riempì l’anima di conforto e di fermezza. Come loro, dunque! E mi sovvenni di Tonino Spazzoli che pochi giorni prima mi aveva detto: Bisogna riscattarci e riscattare il paese. Occorre molto sangue per lavarci! E tocca specialmente a noi del Carso e di Vittorio Veneto. Mi sentii orgoglioso di essere fra quelli che soffrivano di più (…). Ma non il sangue degli assassini, solo il sangue delle vittime è fecondo di bene, perché ogni olocausto splenda come fiamma pura di giustizia, come simbolo di bontà. È soltanto per le gesta ed il sacrificio dei migliori che il mondo riconoscerà nell’Italia la patria di Dante e di Mazzini, dei garibaldini di Digione e di Domokos, di Oberdan e di Battisti, dei ragazzi del Piave e degli eroi di Vittorio Veneto».
A un certo punto della detenzione Casaglia capì che le possibilità di uscire vivo erano pochissime, anche se era al corrente di quanto si stava facendo per salvarlo. Ma vedendo che alcuni compagni di detenzione venivano prelevati per poi essere fucilati, si rese conto che doveva mettere in conto la possibilità di seguire la stessa sorte: «Un’infinita pietà di me stesso mi prese e dalle profondità oscure dello spirito salì un ricordo incerto e lontano di carezze. Un sentimento che superava i confini della terra, una commozione che superava la tempesta. Le preghiere imparate dalla voce materna, da bimbo, e quasi dimenticate, che tornavano portando sollievo e consolazione. Le labbra si mossero bisbigliando, gli occhi si inumidirono, due grosse lacrime scesero lentamente per le guance. Ora mi sentivo più coi miei morti che nella vita. La rassegnazione, grazia suprema di Dio, placava ogni pena. Meditai lungamente nella notte, feci uno scrupoloso esame di coscienza rivolgendo a Dio il mio pensiero, invocando il suo perdono».
Dal diario dell’avvocato Oreste Casaglia si può comprendere la drammaticità che in quei giorni si viveva nel “bel palazzotto di Viale Livio Salinatore dell’Istituto Provinciale per l’Infanzia che era stato prescelto come carcere per la solitudine dei luoghi, che garantiva la clausura più assoluta dei prigionieri e la possibilità di torturarli senza che alcuno udisse le grida che, malgrado la fierezza degli animi e la fermezza dei propositi, il dolore riusciva talvolta a strappare. Una suora che era rimasta per qualche tempo in un edificio poco lontano per vigilare sugli impianti dell’Istituto, dovette poi allontanarsi non potendo resistere all’orrore che suscitavano in lei (suor Laura – Madre Superiore e direttrice dell’istituto, n.d.r.) le urla di dolore dei flagellati (…)».
Al primo piano vi era il Comando delle SS e della SD (polizia segreta o tribunale segreto di Hitler come con aria di misteriosa minaccia, lo definivano i militi fascisti di guardia). Da evidenziare che non sono mai stati trovati elenchi relativi ai detenuti nel carcere della SD di Viale Salinatore.
«Nella Cappella, – prosegue Casaglia – cancellato brutalmente ogni segno religioso, i tedeschi si abbandonavano, specialmente il sabato notte, a bagordi con qualche mala femmina rinnegata. Le celle erano larghe poco più di tre metri e, poiché vi venivano ammucchiati fino a 12 prigionieri, l’aria si consumava tanto che, specialmente nelle ore calde, alcuni erano presi da soffocazione.
Le finestre di esse, infatti, poste in alto, a livello del piano del giardino, erano state murate per tre quarti ed erano coperte, al di fuori da un altro muretto elevato a pochi centimetri da esse.
Le celle erano completamente vuote. Solo corredo: una ciotola, un cucchiaio di legno ed una mezza coperta a grandi quadri proveniente dal carcere giudiziale, che faceva pensare, sdrucita e bucherellata come era, all’infinita schiera di corpi affranti che aveva avvolto.
Quando entrai erano seduti per terra quattro prigionieri i quali alla mia apparizione sorsero in piedi circondandomi con premuroso interesse. Erano: un prete, Don Gaetano Lugaresi, spogliato della veste talare, un comunista forlivese, un partigiano veneto e un carabiniere calabrese. Ci presentammo stringendoci la mano con effusione. “Come si sta qui” domandai. Il comunista senza parlare sollevò un lembo della camicia scoprendo il dorso. Era solcato da vaste e profonde ecchimosi che lo segnavano per tutta la sua larghezza: segni evidenti di una flagellazione recente. “Quando?” chiesi. “Quasi tutti i giorni” rispose il disgraziato mentre il volto pallido ed emaciato si contraeva in una smorfia di dolore. “Vogliono notizie” disse e si stese a terra su di un fianco poiché gli era impossibile giacere sulla schiena. La cella era priva di tutto, non una sedia, non un tavolo, non un giaciglio qualsiasi.
Non mancavano, in compenso, le cimici ed i pidocchi, compagni inseparabili della miseria (…). “In compenso largheggiano nelle bastonate” aggiunse il comunista – “Ogni tanto, poi, qualcuno viene portato via da ogni cella. Se accade verso le 11 li portano alla Caserma Romanello e di là partono per la Germania. Se è di mattina presto, vanno alla fucilazione”.
“E non si salva nessuno?” chiesi ansioso. “Pochi” disse il prete. “I più abili e fortunati”. “Ma noi” aggiunse, evidentemente per consolarci, “Ci salveranno certamente; Iddio ci aiuterà, io prego per voi tutti”. “Quando interrogano?” domandai per l’improvvisa speranza che la mia abilità personale valesse a salvarmi. “Dopo una settimana che si è qui” rispose il prete – “Non prima: io attendo da 8 giorni”.
Compresi che i tedeschi seguivano un sistema accortamente calcolato, scientificamente crudele: stancare con la clausura assoluta, abbattere il corpo col digiuno, con le privazioni e con l’immobilità; avvilire lo spirito con l’ansia costante della tortura, della fucilazione e della deportazione; esasperare la volontà di vivere col più acuto insoddisfatto desiderio del sole, dell’aria, della libertà, della casa. Ai prigionieri dunque era lasciato soltanto l’indispensabile per non morire, erano inflitte tutte le sofferenze possibili…
Sulle dieci, il nome del comunista, deformato dalla pronuncia tedesca, echeggiò nel corridoio. Egli si sollevò penosamente; accorsi e lo aiutai ad alzarsi. “Ci siamo”. – disse, abbracciandomi. “Mi bastoneranno ancora. Mi aiuti Lei!” Gli sussurrai affettuosamente parole di conforto, lo incitai ad essere forte, a non cedere. “Ma essi sanno tutto” esclamò “Vogliono la conferma da me”. Aveva ragione, pover uomo! Tutto essi sapevano di ognuno di noi, all’infuori di ciò che era custodito da pochi uomini sicuri e segreti lo spionaggio e la faciloneria fornivano alla persecuzione segreta molte materie sull’attività dei patrioti.
Il comunista tornò dopo mezz’ora: era più pallido del solito, ma il passo fermo, il volto chiuso in un atteggiamento di dura fermezza. Cadde la spranga sulla porta chiusa e da allora egli barcollò: “Non ne posso più!” disse “Ma non ho parlato”.
Sollevò il lembo della camicia: sul dorso martoriato nuovi e più grossi solchi si erano aggiunti ai vecchi. Giacque sul fianco guardando la fotografia dei suoi, che aveva salvato, nascondendola nella fodera del vestito …
Sentimmo cadere la sbarra: la porta si aprì. Un tedesco spinse rudemente nella cella un nuovo prigioniero. Egli si manifestava, a prima vista come persona di posizione elevata. Era pallido: i capelli aveva bianchissimi, sebbene ancora giovane, gli occhi tristi. La guancia destra era solcata dalla tempia al mento da una striscia sanguinosa; il labbro inferiore a sinistra era nettamente spaccato, sulla camicia erano larghe macchie di sangue.
Ci allargammo tutti, mi feci incontro al nuovo venuto che ci osservava in silenzio. Mi presentai: “Sono il colonnello Cecere – rispose – comandavo l’11° fanteria”.
Sapevo bene di lui e del suo coraggioso comportamento dopo il 25 luglio. “Chi è stato – chiesi, indicando le ferite – i tedeschi?” “E’ stato il capitano Arpino”.
Costui era il comandante, a quanto si diceva, delle SS italiane nella nostra città. S’era fatto una fosca fama di ferocia. Nell’agosto, preannunziò, a quanto ho saputo dopo, la fucilazione del colonnello, la mia e di quella di altri, concludendo: “Faremo piazza pulita”. Era anch’egli un caldo sostenitore della tabula rasa.
“Dopo l’otto settembre, non mi sono voluto ripresentare. Mi ripugnava dare il mio onore e la mia opera di ufficiale al nuovo governo. Perciò mi sono nascosto nella montagna” mi narrava. “Per fedeltà del Re?” – chiesi. “No – rispose – per fedeltà all’idea dell’antifascismo”. “Non ho potuto resistere per le mie condizioni di salute. Sono tornato a Forlì e mi sono nascosto in casa di un mio amico coraggioso, di Afro Giunchi (Giunchi rappresentò la D.C. nel C.L.N. e tenne i collegamenti fra C.L.N. e 8ª Brigata Garibaldi. Dopo la Liberazione fu segretario del C.L.N., n.d.r.). Il bombardamento aereo del 19 maggio ha distrutto la mia casa; mio figlio, il mio unico figlio è morto sotto macerie. Una trave gli ha spezzato la colonna vertebrale. Mia moglie era accanto a lui, imprigionata con un braccio rovesciato ed un dito infisso in una guancia. Per più ore il mio figliolo l’ha rincuorata, hanno pregato insieme a lungo. Infine egli è spirato. Iddio mi ha dato una prova della sua infinita misericordia, chiamando il mio figliolo a sé perché non soffrisse queste ore atroci. Mia moglie è stata arrestata con me: io sarò certamente fucilato, la nostra casa non esiste più”.
Cecere narrava questa sua grande sventura senza una lacrima senza un’inflessione di dolore nella voce. Egli era oltre il dolore, oltre la vita.
“Mi è stata tolta anche la consolazione di rivedere il mio figliolo morto. Gli amici mi hanno impedito di uscire. Quindici giorni fa le SS italiane mi hanno arrestato, con don Lugaresi di San Martino in Villafranca, che mi ospitava e don Melandri di San Pietro in Trento, che mi aveva nascosto in precedenza. Ci hanno bastonato violentemente. Dopo 13 giorni di clausura assoluta nella caserma Garibaldi, mi hanno portato qui”.
Dal primo piano giungevano clamorose risa di uomini e di donne, tintinnio di bicchieri. Cecere si interruppe e tacque, non ebbe un’invettiva, non una sola parola amara. “Dove sarà mia moglie? – chiese triste – povera donna!”.
Il sole era sorto da poco che la porta si aprì ed un tedesco pronunziò il nome del comunista. Gettai uno sguardo nel corridoio; non v’erano altri prigionieri. Nel fondo tre soldati tedeschi in elmetto, armati di fucile mitragliatore attendevano. Compresi. Sul tragico silenzio del carcere batteva l’ala della morte. Mi avvicinai allo sventurato e gli tesi la mano. Egli sapeva già. M’abbracciò e mi disse: “Se uscirai, dì a mia madre che l’ultimo pensiero sarà per lei, per mia moglie e per i bambini. Dì ai miei compagni che muoio nella mia fede”: si volse agli altri, e poiché il tedesco si spazientiva li salutò col gesto: addio, ragazzi, buona fortuna a tutti!
La sua figura curva e dolente scomparve nel vano della porta. Questa si richiuse sulla nostra desolata tristezza come una pietra sepolcrale …
Il nostro spirito si torceva per la disperazione dell’impotenza contro il furore bestiale degli implacabili carnefici. I vigliacchi lo avevano torturato bruciandogli i piedi, lo avevano flagellato per settimane senza pietà, lo avevamo tenuto a languire di fame e di sgomento per un mese».
Com’è noto il colonnello Edoardo Cecere e molte altre persone furono uccise dai nazifascisti in via Seganti, al Ronco, nel settembre 1944.
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