Jacopo Rinaldini la racconta con parole e disegni
Jacopo Rinaldini racconta la “sua” Albania. Lo fa attraverso parole e tele. Perché ha fatto quella scelta lo spiega direttamente.
Al di là del mare ho scoperto un mondo che mi è entrato dentro prepotentemente e che ho deciso di celebrare non tanto con resoconti di viaggio, ma con tele, qualche colore e la forza della memoria. Sono passati mesi, ma quel bambino che correva sulla spiaggia di Durazzo non si è mai dissolto dal mio immaginario.
Lo vedo che sorride, i raggi del sole gli baciano i capelli.
Chi è? Quel bambino è mio padre cinquant’anni fa.
Poche cose, un altro mondo, ma è felice.
Non ha uno smartphone, però possiede tutto il mare che può essere abbracciato dal suo sguardo vivo, quasi adulto.
La spiaggia gli appartiene e il suo gioco non è disturbato da ronzii ossessivi, tutt’al più dal verso di qualche gabbiano ramingo alla ricerca di cibo.
L’Albania per me è come quel piccolo uomo. Vorrei prenderlo per mano e scoprire tutto di lui.
E già, di lontano, sento la eco della voce dei Balcani che mi richiama a sé.
“Eccomi”, rispondo tra me e me.
Prima puntata.
Questi palazzi che pullulano di vita un ordine ce l’hanno. Punteggiano le montagne e fanno loro compagnia.
È edilizia popolare e non ci sono fronzoli, stupidi abbellimenti, marmi o superfici lucidissime. A che servono?
Al massimo, qualche fiore, panni colorati stesi alle finestre e profumo di byrek che invade le vie circostanti.
I bambini giocano sotto casa, le urla delle madri che li chiamano per cena accompagnano il mio girovagare. Giocano e il tempo non li sfiora nemmeno.
Si ode una canzone, uno stornello moderno, ritmico, piacevole: proviene dal bar. Anche a quest’ora si beve il caffè, kafe da queste parti. Si sorbisce con molto zucchero, come se le bustine ricche di dolcissimi grani bianchi potessero in un certo qual modo indorare la durezza di una esistenza talvolta aspra, ma sempre ricca d’umanità.
Qui, tutti si conoscono, tutti si salutano e si chiedono cosa sia venuto a fare un italiano a Gramsh. Non sanno che amo le loro vie, che nei sogni vagheggio quei palazzi in mattoni rossi, vecchi, poetici, popolari.
Non sanno che ho paura che tutto questo scompaia immolato sull’altare della modernità, dei supermercati, dei fast food, dei negozi tutti uguali.
Non lo sanno.
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