Site icon Romagna Post

Nuovo successo per la drammatizzazione teatrale “Il boia nazista a Roma e a Forlì”

Un contribuito per ricordare i sacrifici che furono affrontati per riconquistare la libertà

La sala Don Bosco della Parrocchia dei Cappuccinini era piena in ogni ordine di posto per la replica della drammatizzazione teatrale “Il boia nazista a Roma e a Forlì”. Il testo messo in scena dall’Associazione Sartoria Teatrale è stato scritto da Stefania Polidori, che ha curato anche la regia, in collaborazione con lo storico Davide Conti, Gabriele Zelli e Dario Bettini. Hanno contribuito al successo della serata le voci recitanti di Matteo Bartolini, Davide Conti, Gianluigi Giorgetti, Isabella Giorgi, Enrico Illotta, Emanuele Montali, Paolo Morgagni, Stefania Polidori, Alessandro Russo, Domenico Scibilia, Gabriele Zelli, nonché i brani musicali eseguiti Dario Bettini e Marco Fiori e il coordinamento di Laura Bignardi. Tutti questi elementi hanno fatto in modo che il numeroso pubblico si calasse nell’atmosfera piena di terrore, di distruzioni e di lutti del Secondo conflitto mondiale, dopo che l’Italia era stata occupata dall’esercito tedesco. In particolare di quando dopo la liberazione di Roma un gruppo di SS naziste si insediarono a Forlì nell’edifico di viale Salinatore, sede del befotrofio. Alle vicende della capitale è dedicata la prima parte della drammatizzazione che rievoca l’azione della Resistenza romana in via Rasella e la conseguente rappresaglia tedesca che portò all’uccisione di 335 persone in gran parte antifascisti e partigiani. Mentre il secondo atto si avvale del resoconto che ha fatto della sua prigionia Oreste Casaglia, il noto avvocato forlivese che fu incarcerato dalle SS nell’edificio di viale Salinatore nell’agosto 1944, dopo essere stato arrestato perché accusato di aver sostenuto l’attività partigina di Silvio Corbari. Di quel periodo Casaglia ha lasciato un diario nel quale si legge che: “Il bel palazzotto di Viale Livio Salinatore dell’Istituto Provinciale per l’Infanzia era stato prescelto come carcere per la solitudine dei luoghi. La costruzione garantiva la clausura più assoluta dei prigionieri e la possibilità di torturarli senza che alcuno udisse le grida che, malgrado la fierezza degli animi e la fermezza dei propositi, il dolore riusciva talvolta a strappare”. Dei detenuti nel carcere della SD di Viale Salinatore non sono mai stati trovati elenchi. 
Oreste Casaglia (Lecce 1896 – Forlì 1946) arrivò nella nostra città in età scolastic, seguendo la famiglia, il padre era un funzionario della Banca d’Italia di origini piemontesi. Si diplomò al liceo e frequentando l’istituto scolastico maturò un forte spirito patriottico e repubblicano. Non a caso allo scoppio della guerra si arruolò nei granatieri di Sardegna come soldato semplice, rifiutando di fare l’ufficiale per non prestare giuramento al re, volendo così evidenziare l’attaccamento al Paese e l’avversione nei confronti della monarchia.
Terminato il conflitto continuò gli studi universitari laureandosi in giurisprudenza nel 1921 presso l’Università di Modena. Successivamente si dedicò alla professione di avvocato penalista che lo assorbì totalmente relegando in secondo piano l’attività politica che del resto, con la conquista del potere da parte del fascismo, impedì a Casaglia di partecipare alla vita pubblica nonostante possedesse brillanti doti umane e culturali. Al fascismo non diede mai il suo appoggio. Nonostante ciò gli furono affidati alcuni incarichi di prestigio, anche se privi di potere reale, tanto che durante il Ventennio fu, in periodi diversi, vice presidente dell’Associazione dei volontari di guerra forlivesi, presidente dell’Automobile club Italia di Forlì e presidente dell’Ente Ospedaliero. Quando il regine fascista entrò in crisi subito Casaglia si adoperò attivamente “per la causa antifascista ed antinazista”, come attesta una dichiarazione del Comitato di Liberazione Nazionale provinciale. Per incarico dello stesso CLN assunse il compito rischiosissimo di difendere diversi perseguitati di fronte al Tribunale speciale per la difesa dello Stato e al Tribunale provinciale straordinario repubblicano. Di quel periodo il figlio Luigi ha raccontato: “Noi ragazzi non sapevano molto della sua attività, ma era chiaro che era schierato dalla parte che lottava per la libertà d’Italia. Nè passavano inosservati i prigionieri inglesi che, fuggiti da qualche campo di concentramento, comparivano verso sera (nella villa della tenuta Vicchi Borghesi a Villagrappa dove la famiglia Casaglia si trasferì nel 1944 dopo che i bombardamenti alleati avevano colpito anche Forlì ndr), pernottavano nel fienile e ripartivano la mattina dopo accompagnati fino ai partigiani da mio fratello Nini. Si presentarono anche due soldati indiani con lunghi capelli annodati e barbe incolte. Per ragioni religiose non vollero tagliarsi le barbe nè accorciarsi i capelli e dovettero quindi essere accompagnati con maggior pericolo, perché non sfuggivano neppure all’occhio più ingenuo. Una sera si presentò Corbari, capo partigiano della zona: era trafelato e chiese una bicicletta per fuggire più celermente. Gli fu data la bicicletta di mia madre, era un’Olimpya grigio chiaro nuova. Promise che l’avrebbe fatta restituire il giorno dopo. In seguito fu catturato e ucciso, gli erano accanto Iris Versari e gli amici Adriano Casadei ed Arturo Spazzoli, quest’ultimo fratello di Tonino Spazzoli, amico di mio padre. Mentre questi avvenimenti maturavano, dopo che Corbari aveva avuto la bicicletta, ma prima che fosse catturato, mio padre fu arrestato”. Era il 15 agosto 1944. Iniziò così la detenzione del prigioniero politico Casaglia Oreste nella cella numero 1 della prigione delle S.S. presso il brefotrofio di viale Salinatore. Per 17 giorni subì interrogatori e violenze fisiche. In molti si adoperarono per salvarlo, compreso il vescovo mons. Giuseppe Rolla (1877-1950). Di quella terribile esperienza scrisse il diario a pochi mesi dagli eventi tragici di quell’estate quando la quasi totalità degli antifascisti e partigiani che furono reclusi in quel luogo furono deportati nei campi di concentramento nazisti o, dopo inenarrabili torture uccisi in via Seganti, nei pressi dell’aeroporto. Il diario di Casaglia è un documento straordinario che dovrebbe essere consigliato come libro di lettura nelle scuole superiori. L’eccezionalità del documento fu sottolineata dallo storico Roberto Balzani nell’introduzione della pubblicazione edita nel 2004 con queste parole: “In primo luogo si tratta di una memoria fresca, non meditata dalla lunga stagione della Repubblica e dagli scontri ideologici che seguiranno: Casaglia scompare nel 1946, quando ancora “la guerra fredda” non è neppure immaginabile, e ci restituisce perciò un quadro della Resistenza segnato da un marcato sforzo patriottico e unitario. In secondo luogo, l’avvocato è un cinquantenne ed appartiene ad un ceto medio-alto per gli standard dell’epoca: la sua percezione degli uomini, degli spazi, dei fatti s’impone al lettore per il suo nitore, per la sua chiarezza, per la sua razionalità. Nel descrivere i suoi compagni di cella, Casaglia non ha bisogno di molte parole: inquadra i personaggi, ne tratteggia il profilo psicologico, ne intuisce forza e fragilità. Avvocato, è abituato a farsi un’opinione rapida di chi gli sta di fronte…”. E nella stessa cella trovò il colonnello Edoardo Cecere e l’operaio Pietro Alfezzi, due eroici martiri della Resistenza forlivese, don Gaetano Lugaresi, coraggioso parroco di San Martino in Villafranca. 
Vale la pena riportare qualche brano del volume dal titolo “SS – Cella numero 1. Diario della detenzione presso il carcere politico della SS tedesca – Agosto 1944”, perché permette di ricostruire alcune vicende della Resistenza forlivese e di “scendere nell’animo di chi si impegnò”. Dei momenti immediatamente dopo la cattura e dopo essere stato rinchiuso in uno dei locali che fungevano da celle si legge: “Mi chiusi in me stesso pensando intensamente. La visione della mia casa, del giardino luminoso ove mi avevano arrestato poco prima, dei miei cari che mi avevano salutato cercando di nascondere sotto un sorriso forzato il pianto irrompente, mi sommerse di un’onda di commozione. La respinsi decisamente, compresi che la nostalgia di casa, dell’amore dei miei potevano essere ragioni di debolezza e divenire i miei peggiori nemici (…). Straordinarie restano le parole che usò per evidenziare la reazione che suscitò in lui vedere le sofferenze e le torture subite dai compagni di cella: “Volsi il pensiero a Dio e alle memorie più sacre. Il ricordo dei nostri grandi, di tutti i martiri del Risorgimento, mi riempì l’anima di conforto e di fermezza. Come loro, dunque! E mi sovvenni di Tonino Spazzoli che pochi giorni prima mi aveva detto: Bisogna riscattarci e riscattare il paese. Occorre molto sangue per lavarci! E tocca specialmente a noi del Carso e di Vittorio Veneto. Mi sentii orgoglioso di essere fra quelli che soffrivano di più. (…) Ma non il sangue degli assassini, solo il sangue delle vittime è fecondo di bene, perché ogni olocausto splenda come fiamma pura di giustizia, come simbolo di bontà. È soltanto per le gesta ed il sacrificio dei migliori che il mondo riconoscerà nell’Italia la patria di Dante e di Mazzini, dei garibaldini di Digione e di Domokos, di Oberdan e di Battisti, dei ragazzi del Piave e degli eroi di Vittorio Veneto”.
Ad un certo punto della detenzione Casaglia capì che le possibilità di uscire vivo erano pochissime, anche se era al corrente di quanto si stava facendo per salvarlo. Ma vedendo che alcuni compagni di detenzione venivano prelevati per poi essere fucilati, si rese conto che doveva mettere in conto la possibilità di seguire la stessa sorte: “Un’infinita pietà di me stesso mi prese e dalle profondità oscure dello spirito salì un ricordo incerto e lontano di carezze. Un sentimento che superava i confini della terra, una commozione che superava la tempesta. Le preghiere imparate dalla voce materna, da bimbo, e quasi dimenticate, che tornavano portando sollievo e consolazione. Le labbra si mossero bisbigliando, gli occhi si inumidirono, due grosse lacrime scesero lentamente per le guance. Ora mi sentivo più coi miei morti che nella vita. La rassegnazione, grazia suprema di Dio, placava ogni pena. Meditai lungamente nella notte, feci uno scrupoloso esame di coscienza rivolgendo a Dio il mio pensiero, invocando il suo perdono”

Questo post è stato letto 219 volte

Exit mobile version