Nel ventennio 1480-1500, mentre a Forlì governavano i Riario Sforza, i principali interventi a livello sociosanitario furono messi in atto col manifestarsi di situazioni di emergenza quali la peste o i terremoti. Si trattò di misure che oggi possono apparire del tutto normali ma che allora precorrevano i tempi, gettando le basi di prassi e protocolli che si consolidarono nei secoli a venire.
Fu grazie a quegli interventi, in taluni casi rivoluzionari, che la città si salvò dalla peste o dal contagio con i soldati infettati dal “mal francese”, la sifilide, portata in Italia per la prima volta dall’esercito transalpino (1494-1495).
A quei tempi gran parte delle attività che oggi definiremmo a sfondo sociale erano gestite dai religiosi o da congregazioni direttamente collegate alle varie chiese, tra cui spiccavano l’Abbazia di San Mercuriale e la Cattedrale di Santa Croce. Erano poi molto attive in città alcune comunità laiche, votate alla preghiera e alle opere di bene, i cosiddetti Battuti: bianchi, rossi, celestini, verdi, bigi e neri. Questi ultimi si occupavano di dare sepoltura ai cadaveri dei giustiziati e degli assassinati, ma anche dei poveri, degli indigenti, dei malati e dei forestieri.
Nell’estate del 1483, Forlì e le zone limitrofe furono tormentate da un susseguirsi di frequenti scosse telluriche di una certa entità e gli edifici di allora, non certo costruiti seguendo criteri antisismici, riportarono danni rilevanti. Il fenomeno sismico iniziò la notte di San Lorenzo, mentre l’11 agosto ebbe luogo la scossa più forte che, oltre al crollo di una casa e di una torre, provocò danni anche al campanile e alla Chiesa di San Mercuriale. In tal proposito ha scritto il sismologo lombardo Mario Baratta: “Verso l’una di notte dell’11 agosto 1483, in Forlì vi fu una scossa sì gagliarda e lunga da far suonare le campane dei campanili e da spaccare il pinnacolo di San Mercuriale; chiese e case subirono ingenti danni, crollò un gran tratto del chiostro di San Francesco e vi furono parecchie vittime”.
Per implorare la divina indulgenza, la curia locale organizzò messe, processioni e pellegrinaggi, cui presero parte i Riario Sforza. A seguito della scossa, Caterina, Girolamo e la famiglia si trasferirono dal palazzo del Comune e della Signoria alla Rocca di Ravaldino, ove alloggiarono in una tenda nel cortile del castello, fino a che lo sciame sismico non dette tregua.
Nell’aprile del 1486 fu la peste a portare nuovo smalto all’immagine pubblica dei conti che, per combattere il diffondersi del contagio, chiamarono a Forlì un medico, un chirurgo e due monatti. Come già era accaduto ai tempi del terremoto del 1483, i Riario si fecero vedere sempre presenti alle preghiere, alle messe e alle funzioni religiose che si tenevano per implorare il Signore perché allontanasse l’epidemia dalla città. La stessa Caterina si prodigava tra i malati, incurante del possibile contagio, utilizzando cure e unguenti da lei stessa preparati.
Qualche anno dopo la morte di Girolamo Riario, nel 1491, per porre rimedio alla promiscuità dilagante tra la popolazione e le truppe, Caterina propose di edificare gli alloggiamenti per i soldati di fronte all’ingresso della cittadella, fuori porta Cotogni. Questo progetto al tempo costituì una novità assoluta. Oggi non sappiamo se le casette furono effettivamente edificate, sappiamo altresì che fu il 1496 l’anno in cui la sifilide si manifestò in Romagna. Caterina intervenne immediatamente, mettendo in atto provvedimenti sanitari mirati a ostacolare la diffusione della malattia. Fu vietato ai malati di entrare nelle botteghe di barbiere e fu proibito l’utilizzo su altre persone di strumenti già impiegati sui contagiati.
Scrive lo storico Carlo Cipolla: “Il terrore della peste non era ingiustificato. (…) Nel caso della peste bubbonica il 70-80 per cento delle persone colpite moriva nel giro di 4/7 giorni. Le epidemie di peste erano quindi un disastroso flagello. Nelle città di solito da un 25 a un 40 per cento della popolazione moriva nel giro di pochi mesi. Nelle campagne poteva capitare che qualche villaggio sfuggisse all’epidemia”.
Al manifestarsi dei primi segni della malattia, era prassi comune che i signori si spostassero dalla città alla campagna. Caterina sovvertì quest’abitudine, isolando gli appestati.
Che cosa avvenne a Forlì alla fine della torrida estate del 1499, pochi mesi prima che iniziasse l’assedio di Cesare Borgia che avrebbe condotto alla caduta della Rocca di Ravaldino e alla fine della Signoria dei Riario Sforza a Forlì?
Il 20 agosto 1499, come riferisce Andrea Bernardi nelle sue “Cronache”, morì Faustina Riario, figlia del cardinale di San Giorgio, con ogni probabilità vittima dell’epidemia di peste bubbonica che iniziava a colpire la città.
Caterina temeva che la diffusione del morbo potesse indebolire le sue difese. Per questo corse immediatamente ai ripari, applicando regole e provvedimenti che le consentirono, anche in maniera a volte impopolare, di circoscrivere l’epidemia. Innanzitutto divise la città in settori, poi fece chiudere le porte sia in entrata che in uscita e richiamò medici dalle città vicine, garantendo loro lauti compensi. Fece quindi allontanare i malati dalle famiglie e li ricoverò in lazzaretti allestiti al di fuori delle mura cittadine.
Tutto ciò rappresentò una grande novità per quei tempi. Grazie all’idea rivoluzionaria di Caterina da quel momento in poi furono gli appestati a essere allontanati dalle città e a venire isolati nei lazzaretti. La contessa chiamò a Forlì i monatti perché si occupassero del trasporto dei malati nei lazzaretti e della sepoltura dei morti. Fece distribuire gratuitamente ai cittadini vettovaglie e medicinali, e al tempo stesso diede ordine di bruciare gli indumenti e, in taluni casi, addirittura le abitazioni degli appestati.
Il rapido intervento e la determinazione mostrate dalla Leonessa di Forlì nella gestione dell’emergenza consentirono di limitare il numero dei morti a 176 e di allontanare in poche settimane dalla città il pericolo di un’epidemia che avrebbe potuto avere esiti ben più gravi.
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