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Jingle trucks e incensi al gasolio

Appunti di viaggio su tela

Nuova puntata di “Appunti di viaggio su tela” di Jacopo Rinaldini.

Il sentiero dei colori è lungo miliardi di leghe, ad ogni passo il piede sprofonda in sfumature calde e fredde che innervano l’anima.
Chiuso in casa posso viaggiare ancor più lontano e diventare un punto luminoso che risplende a migliaia di chilometri di distanza da Cesena.
Sgorga dal cuore un sentito grazie Tolomeo, grazie Emilio Salgari, grazie Nino Cirani, grazie Marco Polo, grazie Giuseppe Bettinelli, grazie Tiziano Terzani, grazie Paolo Rumiz e grazie Matteo Ricci.
A voi, compagni di viaggio, il mio incedere: che sia degno delle vostre pagine.

In questo istante, per esempio, calco le fangose vie del passo del Karakorum: sassi e fango si mescolano in un abbraccio voluttuoso e marrone; le ruote si inabissano e odo le urla di pullman carichi di involti, fagotti e preghiere di ogni fede, le quali volano alte come le nuvole gialle che ricoprono le nostre vite sospese.
Camion coloratissimi salgono i tornanti a gomito e giocano con burroni spiritosi che rammentano al guidatore di porre attenzione alla guida, pena un volo cieco nel vuoto e un atterraggio doloroso su massi acuminati.
Non accadrà, non adesso e nemmeno più tardi: Dio sta guardando in questa direzione.
Alle spalle il conteso Kashmir saluta con un sorriso martoriato chi lo sta abbandonando. Il punto di arrivo è il Tibet.

In tale viavai sbocciano petali di inusitata bellezza; una bellezza meccanica e malinconica, eppure viva, palpabile, che racconta assai più di un verboso saggio circa gli usi degli indiani e dei pakistani divisi da decenni, ma accomunati da una passione sfrenata per il simbolismo e la decorazione su ruote, oltre a quella per il cricket.
Mi sto riferendo ai camion che hanno rimpiazzato le lunghe carovane, le tende e i pasti frugali sotto alle stelle d’Oriente. L’ arte si respira tra bulloni e frizioni bruciate.

Jacopo Rinaldini


Ogni camion, sia esso un Tata, un Mahindra, un Ashok-Leyland, ha una sua storia, un nome scolpito nel legno che troneggia sulla cabina di guida ed è l’unica targa riconosciuta (quella vera, talvolta, manca sul serio), il lasciapassare per le vie del business legato a doppio filo con una tradizione che nulla potrà mai scardinare dall’arte di intendere la vita di questi due paesi fratelli e contrapposti.
Il camion, qui, è una ragione di vita. Il settanta per cento delle merci transita su gomma: sono enumerabili le disperate ballate dedicate ai camionisti, le serie televisive; numerosissimi i film prodotti da quella industria di paillettes rosse e rosa che risponde al nome di Bollywood.
La trama è pressoché sempre la medesima: il protagonista si innamora di una affascinante ragazza dai capelli corvini e dal sari sgargiante incrociata lungo il percorso.

Tra il guidatore e il mezzo si instaura un rapporto di parità, di uno a uno, così il motore parla e si confida con chi siede dietro al volante e lui solo riesce a dare senso ai vagiti e agli stridii dei pistoni.
Cabine, rimorchi e cassoni letteralmente affrescati: paiono dei templi, delle moschee o delle chiese viaggianti. S’incontrano elefanti sacri impressi su combinazioni di colori poco probabili, pavoni dalle piume di diamante, Visnù benedicenti, immagini di una Madonna adorante e lieta, colombe bianche e Gesù quasi rinascimentali.
I musulmani, d’altro canto, rispondono con decorazioni geometriche e perfette, però ciò che attira maggiormente l’attenzione sono le frasi dai caratteri più disparati: “Allah is great” si legge su un Bedford pachistano.


Per questo mezzo in particolare, gli amici battenti bandiera verde e bianca, hanno una divina predilezione. Non importa che abbia più di cinquant’ anni: il motore si rifà, gli ammortizzatori si possono sostituire all’infinito così come i freni. Un eterno bambino d’acciaio che passa in eredità dal padre al figlio.

Su ciascun camion non manca la solita raccomandazione: “Suona il clacson!”
Su tutti campeggiano i loghi di Mercedes-Benz e Audi opportunamente orientalizzati, ossia ridisegnati alla maniera indiana. Mi piace.
I Tata e gli Ashok-Leyland indiani, allestiti da apposite officine, le quali costruiscono tutto a mano, partendo dal pianale nudo e che hanno nomi che sono tutto un programma come “Gill truck body works Samana” e “Itbb Indore”, godono di cabine illuminate da led coloratissimi: moderni mosaici bizantini in movimento. Non mancano mai altari su cui accendere gli incensi: onnipresenti, si trovano a fianco al posto di guida. Chilometri percorsi in odor di santità?

Questa commistione di sacro, lavoro e profano mi fa guardare a Oriente con speranza: l’Occidente non è riuscito ancora a masticare la zona del mondo che sto dipingendo.
Una fessura, una via d’uscita che irradia luce di fede mentre gocce d’olio zampillano da motori stanchi dei Jingle trucks parcheggiati. Jingle trucks: così si chiamano. Bello, tutto sommato,no?
Intanto, giro la chiave della mia piccola Panda e lascio scaldare il motore, ritrovandomi nel mio garage.

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