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“Gjezme”, un caffè a cavallo tra mare e montagna

Appunti di viaggio su tela

Nuova puntata de “La mia Albania” di Jacopo Rinaldini.

Confinato tra silenzi vivi d’inusuale armonia, eloquenti in modo magnifico, allungo le mie mani al di là del mare e, con la punta delle dita un po’ tremanti per le infinite suggestioni che si affastellano sotto la pelle, accarezzo i sassi di Ksamil e chissà per quale forma di sinestesia m’inebrio dei profumi del “Byrek” di Durazzo, a Pogradec bagno gli occhi nelle acque del lago Ohrid: non sento alcun confine, nessuna bandiera, nessuna patria mi trattiene come una prigione.

C’è unicamente un filo di seta da cui mi lascio imbrigliare: è quello che corre tra le caviglie della famiglia umana. Il metro per fare il salto di qualità può essere unicamente il cuore ed è su tale metro che andrà edificata l’idea di futuro. 


Su un tavolino male in arnese è riposto il mio “Gjezme”, il quale altro non è che una sorta di moka utilizzata in Albania per preparare il caffè turco.

Nel mio salotto, cristallizzato in un istante, l’aroma deciso del caffè appena tostato. 

Socchiudo gli occhi al ritmo della musica che producono i chicchi che saltano vivaci nel tostatore arrugginito, saggio strumento relegato nelle cantine da un mondo frenetico che ne ha obliato il ricordo, ossessionato dalla perfetta imperfezione della modernità.

Davanti a me la tazzina in rame che diventa arca della salvezza e dell’evasione. 

Mi faccio piccolo piccolo, ci salto dentro, e attraverso l’Adriatico.

Mi scopro a Orosh, Mirdita, nord dell’Albania, scalzo. Una campagna che inizia ad inverdire, l’aria pulita che mi dà sollievo e riempie i polmoni. Donne affacendate nei campi, curve sotto un cielo bizzarro, uomini che tagliano la legna e mi salutano con la mano: tra loro riconosco Gjon Tuci, poco più in là c’è Shkurt che racconta una storia di vita vissuta a Gjovalin, il quale ascolta rapito. 

Continuo a camminare lungo un sentiero di sassi grigi, eccola là: una bella casa in pietra, abitata da contadini, l’uscio è socchiuso. Le corro in contro come se fosse una persona. 

La porta di pino che rammenta una bocca, sotto a due finestre che sembrano occhi, si apre: scricchiola un poco e dallo spiraglio che diventa breccia si affaccia il mio amico Prenga. Basta un sorriso per distruggere ogni reticenza. Ci ritroviamo ed è una festa. 

Sta lì, sulla porta, alto e fiero nella sua magrezza di lavoratore. Entro prima di lui, mi cede il passo: quassù usa così. L’ospite è sacro e quel poco che si ha si condivide. Piccoli gesti autentici che vanno a incastonarsi nel mosaico dei ricordi che porto dentro.

Gli uccelli cantano, il bosco prega sottovoce: solo un fruscio delicato mormorato dagli alberi. 

Lo sento, lo capisco, rido tra me e me. Un giorno, non è ancora il momento, tornerò alla terra che ci rende figli del medesimo padre e il vostro brusio sarà il mio.

Jacopo Rinaldini

Avverto sulla mia pelle la corsa matta delle formiche, la lingua ruvida dell’orso che mi accoglie tra le sue montagne e il becco severo dell’aquila. Famiglia umana che appartiene a una famiglia ancora più grande, quella di tutti gli esseri viventi, la quale mi dà un benvenuto autentico. 

Dalla finestra del salotto di Prenga, uomo contegnoso, quasi austero, ma dal cuore buono e puro, scorgo la croce della Cattedrale che benedice il mondo circostante: è alta, imponente, solida; edificata in roccia bianca. Mi rassicura. In questa zona è il faro che guida i pastori e illumina la vallata. 

Ritrovo tracce del mio Friuli, di un piccolo punto chiamato Taipana (UD): cambiano i nomi, ma quello che sta passando ora è Nardìn, ha solo un costume differente: lo saluterei con un “Mandi” se avessi più coraggio. Ci conosciamo da sempre, mi pare, pur ignorando reciprocamente i nostri nomi. Poco importa. 

Le campane della Cattedrale di Orosh e della chiesetta di Taipana suonano senza differenze. Le medesime note, la stessa voce di Dio. Pure qui si fa la polenta: gialla, granulosa, povera, ma dignitosa. Manca il “frico”: vorrà dire che lo importerò io. 

E’ il filo di seta che tira, il filo legato alle caviglie di tutti gli uomini. Potrei strapparlo in qualsiasi momento, eppure…

Sento Marina dall’altra stanza che chiama Prenga. 

Lei, superba cuoca che inventa tutto con niente, è in cucina. Ci raggiunge.

Il caffè è pronto: i chicchi sono stati macinati, il fuoco nel camino ci protegge dall’abbassarsi della temperatura. 

Siamo seduti tutti e tre di fronte al fuoco che furoreggia nel camino di pietra. Fuoco mio, quanti visitatori hai scaldato prima di me? 

Iniziamo a ridere, a parlarci, a lanciarci sguardi senza tempo. Le parole distruggono i minuti, i secondi, le ore. Il peso della convivialità sincera e gratuita schiaccia il tempo. Il caffè è un rito e sostituisce il focolare. Dinanzi a quella tazzina i problemi si condividono in un unico immane fardello e si soffre per la sofferenza dell’altro, che diventa prossimo in senso letterale.

Parliamo lingue lontane, ma è come un Esperanto sconosciuto che mi ritrovo a masticare con maestria: ci comprendiamo. 

In tre ci troviamo a tenerci per mano: sento il profumo del pino appena tagliato, l’aroma del caffè che danza nella gola e lo sciabordio dei panni stesi pare il vento del deserto del Gobi. 

Sono seduto sul divano di casa mia, a Cesena, con il volto coperto da una mascherina azzurra.

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