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L’Italia e il rischio fallimento

Il default sarà evitato. Tutti concordano. Ma che prezzo dovremo pagare?

L’Italia non fallirà. Ne sono convinto, anche se il mio parere conta poco o nulla. Un default lo escludono tutti gli economisti che ho sentito e letto in questi giorni. Innanzitutto perché il nostro crac non converrebbe a nessuno, in secondo luogo perché abbiamo una ricchezza privata enormemente sufficiente per affrontare qualsiasi crisi, in terzo luogo perché per evitare il baratro ci sono diversi sistemi: tassazione, patrimoniale e compagnia cantante. Interventi che per ora  tutti escludono, ma che diventeranno inevitabili di fronte al rischio concreto del crac. Questo però non significa che dopo tutto sarà come prima.


Molto dipenderà dal comportamento dell’Europa. Se l’Ue ci getterà la ciambella di salvataggio i nostri sacrifici dovranno essere minori. Minori, non inesistenti. Come scrive Alessandro Campi su “Il Messaggero” c’è il rischio reale di dover chiedere agli italiani pesanti sacrifici economici specie se le nostre richieste all’Europa dovessero andare deluse o parzialmente frustrate.

Del resto ormai è chiaro che per superare questa crisi ci serviranno duecento miliardi di euro. Cifra che le asfittiche casse italiane non hanno a disposizione. Quindi bisogna partire dal presupposto che se anche dall’Europa arriverà un consistente aiuto anche noi saremo chiamati a fare la nostra parte. Innanzitutto come comportamenti, ma, temo, anche con il portafoglio.

Il problema poi è come gestire quella fase. Al di là dei nomi, l’Italia in questo momento ha un  governo troppo debole e con dei residui ideologici (in particolare nella componente grillina) che in una fase come questa sono del tutto ingiustificati. Prendiamo l’esempio del Mes. È vero che non risolverà i problemi. Ma se effettivamente ci fosse una linea di credito che ci porterebbe 39 miliardi senza vincoli e a tasso zero o quasi non avrebbe senso rinunciarci solo perché arrivano dal Mes. In confronto Tafazzi è un dilettante.

Ma anche le guerre per bande sono del tutto inutili. Vedere i politici che innanzitutto sono alla ricerca del consenso personale o del proprio schieramento fa venire in mente la fine dell’impero romano, quando c’erano i barbari alle porte e la nomenclatura continuava a fare le feste. Anche in questo ha ragione Campi quando scrive: per affrontare il dopo coronavirus difficilmente basterà un clima di solidarietà nazionale o un generico spirito di collaborazione. Potrebbe – continua – piuttosto servire una formula istituzionale e di governo funzionale a questo obiettivo ognuno la definisca come meglio crede e dunque per davvero unitaria sul piano politico a parlamentare e relativamente a chi sarà chiamato a guidarla.

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