Nuova puntata de "La mia Albania" di Jacopo Rinaldini
Nuova puntata de “La mia Albania” di Jacopo Rinaldini. Oggi parla di Sektor Rinia.
Le case non finite hanno occhi grigi d’ammalati, monumenti votati all’incompiuto, guardiani stolidi, dolcissimi, di fanciulli che pestano senza tormenti sui pedali delle biciclette arrugginite: scale pericolanti, assenza di finestre da cui turbina il vento, entrate prive di porte come bocche senza denti.
E’ qui che si consuma il girovagare vagabondo del “Riccetto”, l’ultima torrida estate del “Pestifero”, è qui e solo qui ancora intatto il frammento di una buona “poesia borgatara” sgretolato pressoché ovunque dalle promesse di una modernità matrigna che nulla dà e troppo sottrae.
Mi sembra di osservarlo mentre cammina sul ciglio della strada puntato verso la mia direzione, il “Riccetto”.
Una sagoma nera, minuta, incastonato nel mosaico di un popolo non ancora mutato in “massa”.
Il prezzo da pagare per visioni illusorie è alto e solo quando questa terra lambita da mari omerici avrà smarrito sé stessa, inseguendo bisogni finora sconosciuti, s’accorgerà d’aver dilapidato il patrimonio prezioso che la rende ricca: la tenerezza. Una tenerezza che rischia di essere soppiantata da ben altra e infelice cosa.
E’ una vitalità commovente quella che pianta le radici nella mia carne e non voglio perdere nulla di ciò che resta in questo angolo di mondo in cui crescono unicamente erbacce, dai rubinetti esce acqua salata e i pali della luce paiono scheletri di giganti che maledicono il cielo.
L’asfalto cede mollemente sotto gli pneumatici: le buche più dolci su cui mi sia mai capitato di guidare.
Una lingua d’asfalto lunare.
In questa località a nord di Durazzo la via maestra, la quale corre sino ad un mare che rammenta quello dei nostri lidi ferraresi, forse è per una nostalgia sussurrata che odo tuttora la eco delle voci dei suoi abitanti, è vittima di un fenomeno particolarissimo: non si rompe, non si crepa, non si spacca, non si aprono voragini simili a bocche dentate. No, viene inghiottita dal terreno, rimanendo intatta, a causa del peso dei camion che vi transitano sopra ogni giorno. Non c’è alternativa: le grosse carovane motorizzate devono passare di lì con buona pace dei residenti. Una via della seta in miniatura che si s’insinua tra capannoni, campi sterminati e fabbriche anonime.
Avanzo lentissimamente, accompagnato dalla nenia di una radio locale. Fisarmoniche suonate dal vento e note di “çiftelia” che corrono nell’abitacolo. Il navigatore non risponde: nessuna paura, perché è una grande casa quella in cui sono ora. Il tetto è la volta celeste. Riconosco ogni stanza, sorrido a ogni fratello e sorella di Sektor Rinia.
Una struttura improvvisata nella quale armeggia senza posa un gommista indica che devo voltare a sinistra.
Una via di ghiaia fa da tappeto rosso alla piccola Panda carica come una bestia da soma. E’ coperta di polvere, gli adesivi non si leggono più, ma continua infaticabile la sua flemmatica corsa.
Sobbalza dinanzi alla casa dell’amico Viktor: esce non appena ode il lamento delle ruote sulla ghiaia. Lo vedo incedere nell’orto e fare segno di fermarmi. Sua moglie ha steso i panni in giardino. Quella tovaglia bianca che sciaborda quasi vi fosse impresso sopra un araldico stemma è la mia bandiera.
Passerò da te più tardi, Viktor e al caffè accompagnerò un bicchiere di rakì preparata in casa con i tuoi alambicchi magici.
Poco più avanti, la casa di “daja” Gjon. Egli è lì, sotto al portico, camicia aperta sul petto, ride della mia Panda e allarga le braccia. Suono il clacson, alzo il volume della radio, cantiamo insieme, l’orologio al polso interrompe il furto di tempo: << Eja o shoku ynë, të kemi pritur >> e ci comprendiamo subito.
Kozma Dushi, un cantante in voga negli anni settanta, è il nostro traduttore automatico di emozioni.
La tenda sulla porta si dischiude fiaccamente: il viso piccolo e tondo di Marina fa capolino tra il tessuto e il muro. Mi spia raggiante. Dietro, appare Mariana e il suo << Ciao Jaku >> mi restituisce la percezione della strada percorsa finora. Oltre mille chilometri a bordo di una utilitaria. Sono radioso e grato al tempo stesso.
In mio onore è stata imbandita una tavola dai mille colori e profumi, è stato perfino ucciso il maiale: le braci non cessano di fumare. Il fumo grigio voluttuoso e attorcigliato a se stesso mastica parole di benvenuto.
Tutt’intorno è prato, abbaiare lontano di cani e odore di mare. La sua casa è bassa, si sviluppa su un unico piano ed è di due colori: rosa e bianca. Dietro ad essa si trova l’orgoglio di “daja” Gjon: l’orto. Far crescere verdure da queste parti non è poca cosa, dal momento che sotto al terreno vi è soltanto acqua di mare.
Lungo la strada principale si arriva direttamente al paesino di Sektor Rinia: un frammento di mare balcanico, una schizofrenica borgata che vorrei perlustrare palmo a palmo. La sabbia giunge sino alla strada. E’ rossa, granulosa, non so per quale ragione mi sovvengono alla mente le immagini di Petra, Giordania.
Da un piccolo market esce una ragazza con una paio di bottiglie di kos: lavora lì tutto il giorno. E’ giunto il tempo di rincasare. Nel suo viso una bellezza manifesta, sopracciglia antiche di millenni, nere, proteggono uno sguardo magnificamente eloquente.
Accanto, una Mercedes 200 D (W123), riverniciata di blu, accompagna la giovane donna: sembra osservarla con i fari spenti, uno sguardo da bove paziente e rotto ad ogni fatica.
L’immagine di un piccolo mondo antico, una casa di bambole tetragona al passare dei secoli, la quale resiste nonostante tutto. Ci si salva con piccoli gesti: con una stretta di mano, un sorriso abbozzato, un sorso d’acqua offerto al pellegrino assetato.
Tra una portata e l’altra assaporo in tutta la sua grandezza il gusto della gratuità, del pane spezzato nella campagna albanese meno conosciuta e per nulla battuta dal turismo avido, arraffone e corruttore che tanto ci attrae, perché “genera ricchezza”.
Li sento solo io gli intercalari in romanesco del “Riccetto” che si perdono all’orizzonte, sopra il minareto della grande moschea bianca.
Nella luce del tramonto due bambini usciti da una fotografia in bianco e nero giocano con una palla tutta consumata dai calci: mamma, babbo vi ho ritrovati qui, bambini. Aspettatemi, vengo a giocare con voi.
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