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“… E per loro torna a fiorir la terra …”

Il ricordo degli sminatori forlivesi deceduti

Nel corso degli anni molti sono stati gli avvenimenti del Secondo conflitto mondiale e della Resistenza che sono stati approfonditi gettando nuova luce su quanto avvenne in quei tragici anni e nell’immediato dopoguerra. Fra gli argomenti che restano ancora da indagare in modo più approfondito merita sicuramente attenzione l’attività di sminamento del territorio forlivese. Un lavoro rischiosissimo che causò molti feriti e la perdita di decine di vite umane fra coloro che operarono per ripulire il territorio, senza contare i civili, molti i giovanissimi, che casualmente vennero a contatto con bombe e granate inesplose. 
Più volte il signor Giovanni Valpiani, orfano dello sminatore Luigi, che conosco anche per essere stato un valido dipendente della Cassa Rurale e Artigiana di Forlì (oggi BCC), ha insistito perché si conducesse una ricerca per ricostruire le fasi dell’intera bonifica e i protagonisti di questa storia storia mai dimenticata, perché ancora ai giorni nostri, dopo 75 anni dalla conclusione del conflitto, di sovente vengono ritrovati ordigni bellici inesplosi con tutte le ripercussioni del caso.  
Giovanni Valpiani rimase orfano nel 1945, all’età di undici anni. La sua famiglia, come tantissime altre in quel periodo, aveva serie difficoltà economiche e nell’impossibilità di trovare un lavoro stabile e soddisfacente il padre Luigi decise di aderire all’appello che era stato lanciato per reclutare sminatori. Si recò a dare la propria disponibilità in un ufficio che operava al primo piano
di Casa Cantoni di corso Mazzini, negli stessi locali poi utilizzati negli anni ’60 dal Circolo Socialista “Claudio Treves” e in tempi più recenti da un Self service. Ovviamente in casa tutti manifestarono la loro contrarietà a questa scelta che presupponeva sottoporsi a gravi rischi e pericoli. Ma la necessità di un’entrata sicura per sfamare il nucleo familiare che, oltre alla moglie Adriana, era composto da due figli: Lena nata nel 1933 e Giovanni nato nel 1934, spinse Luigi Valpiani a non rinunciare all’incarico. Dopo un breve corso iniziò ad operare come caposquadra nel ravennate. Di solito, per le difficoltà dei trasporti e dei collegamenti, la squadra di cinque sminatori coordinata da Valpiani partiva al lunedì e rientrava per il fine settimana. Il gruppo era impegnato a ripulire vaste aree agricole affinché i contadini potessero riprendere il lavoro. Alle difficoltà connesse allo sminamento, quasi sempre effettuato con strumentazione poco adatta, per non dire molto approssimativa, si aggiungevano quelle del pernottamento. Nei poderi dove erano chiamati ad operare dormivano abitualmente in giacigli per terra ricavati nelle stalle dei contadini, o vicino ai pagliai.   
Il 24 maggio, un venerdì, mentre stava completando un’operazione di sminamento successe l’irreparabile a causa dell’esplosione di una seconda mina posizionata sotto la prima che aveva appena estratto. In molti casi era una consuetudine da parte dei militari tedeschi collocare due ordigni sovrapposti per rendere più difficile e pericolosa la bonifica, se non mortale come nel caso di Luigi Valpiani, che fu la prima vittima fra gli sminatori di Forlì. Aveva 35 anni e lasciò i congiunti nella disperazione; essi ebbero però la forza di superare il tremendo dolore e le tante difficoltà del vivere quotidiano.  
Da allora tutta la famiglia di Luigi Valpiani ha mantenuto viva la memoria del loro caro. Ogni anno gli rendono omaggio collocando una corona di alloro sulla lapide dedicata agli sminatori morti nell’adempimento del proprio lavoro collocata sotto l’androne del Palazzo Comunale, di cui si dirà più avanti, accumulando tutti nel ricordo. 
La storia di Luigi Valpiani, raccontata in modo molto sintetico mi porta a fare un appello affinché coloro che hanno fatti da raccontare, o conservano documentazione, su queste vicende relative a Forlì e al territorio forlivese me le inviino via mail: gabriele.zelli@gmail.com. Tutto sarà raccolto per integrare quanto già si conosce.  
Nel frattempo cercherò di sottolineare le dimensioni del problema creato dalla presenza di strumenti di morte disseminati ovunque, ricordando che in alcune zone d’Italia sono presenti ancora, dopo oltre cent’anni dalla conclusione, ordigni risalenti anche al Primo conflitto mondiale, basti pensare ad esempio all’alto Friuli, al Carso e altri luoghi. Mentre su tutto il territorio nazionale, dopo oltre settant’anni dalla fine dell’ultimo conflitto, quando si effettuano scavi in profondità è possibile che riaffiorino delle bombe del periodo bellico, che nonostante tanti anni di permanenza nel terreno conservano ancora un alto livello di pericolosità e devono essere trattate da personale militare esperto.

Foto: Fabio Blaco

La lapide che ricorda gli sminatori forlivesi deceduti 
Per raccontare quanto è noto di tutta questa storia parto dal segnalare che sotto l’androne dell’ingresso principale del Comune di Forlì, piazza Saffi 8, c’è una lapide, fra le altre, che sotto lo stemma dell’Amministrazione civica e del Corpo degli sminatori tenuti legati da un filo spinato porta questa iscrizione: 
“1945 -1948 / IN MEMORIA DEI FORLIVESI CHE ALLE DIPENDENZE DELLA SOTTOZONA BONIFICA CAMPI MINATI DI FORLI’ SFIDANDO LE INSIDIE DELLE MINE GENEROSAMENTE CADDERO:
VALPIANI LUIGI 1945, TRUDU PRIMO 1945, DE LUCCA LUIGI 1945, CASADEI SERGIO 1945, PANICALE TOLSTOY 1945, DELLA VITTORIA DANTE 1945, RAVAIOLI AMEDEO 1945, ZACCHERONI GUELFO 1945, PERISANO SALVATORE 1945, MORGAGNI RINO 1946, VERNI MARIO 1946, NERI ERMANNO 1946, ERCOLANI VERDIANO 1946, BOSCHETTI FRANCESCO 1946, MAZZOTTI VINCENZO 1946, GELMINI CIPRIANO 1946, ARMADORI GIULIO 1946, QUERCIOLI TESEO 1946, SARTINI ANTONIO 1947, DE COLA GENEROSO 1947, BROCCHI GUERRINO 1947, CECCARELLI ANTONIO 1947, BONGIOVANNI VITTORIO 1947, VENTURI GIUSEPPE 1948″. 
Più in basso, in corsivo, appare la frase: “… E per loro torna a fiorir la terra …”

L’invasione della Sicilia nel 1943
Nel mese di maggio del 1943 la catastrofe in Nordafrica, preceduta dall’altrettanto disastrosa  ritirata dalla Russia del gennaio precedente, ebbe conseguenze decisive per Benito Mussolini e il regime fascista. La perdita della Libia, la minaccia di attacchi diretti all’Italia e e la distruzione delle unità migliori dell’esercito provocarono una caduta del prestigio del Duce e favorirono la crescita dell’opposizione all’interno dei quadri dirigenti politici e militari. In precedenza Mussolini aveva compreso l’importanza determinante per la continuità del regime della campagna nordafricana che aveva coinvolto nel teatro di guerra l’Egitto, la Libia, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco. Tant’è che cercò di rafforzare le forze italiane impegnate sul campo con nuovi invii di truppe e fece pressioni su Hitler, con scarsi risultati, per sollecitarlo a modificare il suo piano strategico generale, rinunciando alla guerra sul fronte orientale e concentrando le sue forze nel Mediterraneo. 
Le manifestazioni di facciata e la retorica di Mussolini non poterono nulla di fronte alla catastrofe tunisina che sarà seguita, due mesi dopo, dall’invasione della Sicilia e dalla caduta del fascismo.  La Sicilia fu teatro dei primi scontri tra le forze opposte. Era il 10 Luglio 1943, quando un contingente di 160 mila uomini e 600 carri armati sbarcarono sull’isola. I soldati americani guidati dal generale George Smith Patton (1885 – 1945) puntarono verso ovest, gli inglesi comandati dal generale Bernard Law Montgomery (1887 – 1976) si diressero ad est. 
Una delle prime conseguenze fu l’infestazione del territorio di campi minati, granate ed ogni altro tipo di arma esplosiva, mettendo in serio pericolo l’incolumità sia dei militari che si fronteggiavano, sia dei civili che, inermi, erano colpiti ancor più dei primi.
I campi minati, le bombe e le granate inesplose, insieme agli esplosivi bellici lasciati sia da chi si ritirava sia da chi vinceva ed avanzava, più che mai manifestarono la loro insidia e la loro pericolosità. Inoltre dopo ogni bombardamento si appurava la presenza di alcuni ordigni inesplosi con la conseguente necessità di rimuoverli ed eliminarli. Oltre alle rimozione effettuate dai soldati alleati che risalivano l’Italia sulle strade principali (nella foto che si pubblica in questa sede si notano militari alleati che stanno sminando la via Emilia in località Cosina, al confine fra Forlì e Faenza), si cominciò ad assistere ad un impegno analogo, senza alcuna predisposizione organica e razionale, da parte di volontari che cercarono di annullare la possibilità di offesa di queste armi. Erano gruppi autonomi, prevalentemente civili, guidati da esperti, il più delle volte radunati dai Comuni di città bombardate, cominciarono questa prima fase di bonifica.
Quando i bombardamenti cominciarono ad investire le città del centro e del nord il lavoro di segnalazione alle autorità sulla posizione e la presenza di bombe di aereo non esplose fu più sistematico anche se lacunoso in più casi. Nelle ore seguenti pochi uomini, con a capo un esperto in materia, o nella migliore delle ipotesi guidati da ex genieri ed artificieri militari, iniziarono la loro opera preziosa di disattivazione e rimozione di questi residuati bellici. 

Un milione di bombe sull’Italia 
Nel corso della 2° Guerra Mondiale, RAF (Royal Air Force) e USAF (United States Air Force) 
sganciarono complessivamente un milione di bombe sull’Italia, più di 350.000 tonnellate di esplosivo. Le aree con importanti obiettivi strategici come i ponti, le linee ferroviarie e le zone industriali vennero ripetutamente attaccate. Secondo alcuni studiosi circa il 10% di quanto fu sganciato dagli aerei alleati e anche da quelli tedeschi non esplose, tanto che viene stimato che sarebbero da recuperare 250.000 ordigni sul territorio nazionale, di questi si è calcolato che una frazione significativa (15-18%) fosse dotata di spolette a tempo ritardato. Queste ultime erano preparate a scopo terroristico per causare danni anche a distanza di giorni dalla data del bombardamento, quelle inesplose sono tuttora di particolare pericolosità in caso di spostamento accidentale. 

La resa dell’esercito tedesco 
II 29 aprile 1945 nella reggia di Caserta i rappresentanti dell’esercito tedesco firmarono la resa delle loro forze armate in Italia con decorrenza dalle ore 12 del 2 maggio. Terminava così ufficialmente la Seconda Guerra Mondiale in Italia.
In un saggio dedicato alla presenza di ordigni inesplosi sul territorio, gli storici faentini Enzo Casadio e Massimo Valli, riprendendo uno studio portato a termine nell’anno scolastico 2003/2004 da Giulia Martelli e da Francesco Tassinari, due studenti del Liceo Classico di Faenza Torricelli-Ballardini, scrivono: “Ma la fine delle ostilità non significa la fine della perdita di vite umane, in molte parti d’Italia, ma in particolare nella nostra provincia (Ravenna), si continua a morire per anni dopo la fine della guerra a causa delle tante mine che erano state piazzate dai due eserciti contrapposti e delle migliaia di proiettili e ordigni inesplosi. La stasi nelle operazioni militari che vide la linea del fronte fermarsi sul fiume Senio dai primi di gennaio del 1945 fino all’offensiva del 9 aprile, aveva indotto I’esercito tedesco a sistemare migliaia di mine antiuomo e anticarro nei terreni vicini al fiume, per ritardare I’avanzata degli alleati e per evitare che le pattuglie inglesi si avvicinassero troppo alle loro posizioni. Anche I’VIII Armata britannica aveva piazzato delle mine, per evitare o almeno rallentare possibili contrattacchi dei tedeschi. A volte i tedeschi ritirandosi piazzavano delle trappole esplosive costituite da bombe a mano o altri ordigni, queste trappole potevano essere collegate ad un oggetto o ad una porta, cosi che, rimuovendo quell’oggetto o aprendo quella porta, avveniva l’esplosione. Al di la delle vittime che causavano, continuano Valli e Casadio, queste trappole esplosive servivano a ritardare l’avanzata e a stressare gli Alleati, i cui soldati quando avanzavano, dovevano muoversi molto lentamente e con molta attenzione per evitare queste insidie. Durante la fase iniziale dell’offensiva contro le postazioni tedesche sul Senio del 9 aprile 1945 i genieri alleati cercarono di liberare dalle mine il terreno nei punti dove erano previsti gli attraversamenti del fiume, poi la rapida avanzata li portò ad operare sui fiumi successivi, fino all’arrivo a Bologna il 21 aprile. Con la fine dei combattimenti molti agricoltori, che erano stati allontanati dai loro poderi vicino alla zona delle operazioni, ritornarono alle loro case, ma si resero subito conto che era impossibile ricominciare a lavorare se prima non fossero state rimosse tutte le mine disseminate nei campi. La bonifica del terreno era una operazione molto complessa a causa dei vari tipi di ordigni esplosivi che si potevano incontrare. Si andava dalle bombe a mano, alle granate delle artiglierie e dei mortai che non erano scoppiate, alle grandi bombe da aereo che se non esplodevano, si conficcavano per alcuni metri nel terreno, e non erano facilmente individuabili. Le più insidiose erano le mine, che erano state poste una ad una nel terreno, a volte seguendo degli schemi ben precisi per creare dei campi minati, altre volte messe a caso nel terreno nei punti di probabile passaggio dei soldati. 
Per trovare le mine gli alleati disponevano di cercamine magnetici che rilevavano la presenza del metallo nel terreno, ma i tedeschi avevano cominciato a costruire mine con materiali non metallici e così fu sviluppato un nuovo tipo di cercamine che rilevava la diversa densità del terreno”.
I tedeschi avevano usato, infatti, una quantità enorme di mine usufruendo anche di arsenali e magazzini da tempo requisiti nei paesi occupati. Alle pericolosissime Shrapnel mine (bastava una pressione di due chili per farle esplodere) si aggiunsero così ordigni dalle più diverse composizioni: in legno, bachelite, alluminio e altre leghe leggere fino ad oltre 100 diverse tipologie. 
Nel prossimo testo si parlerà dell’istituzione a Forlì della Scuola di Bonifiche Campi Minati. 

Gabriele Zelli 

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