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Nuvole di zucchero filato sopra Durrës

La nuova puntata de "La mia Albania" di Jacopo Rinaldini ci porta a Durazzo

Nuova puntata de “La mia Albania” di Jacopo Rinaldini. Questa volta ci porta alla scoperta di Durazzo.

Durazzo è il giardino della mia anima, un mondo a sé, che mi ha accolto e scrutato con mille volti; affonda lunghe radici nel gorgo del tempo, le quali distillano gocce d’acqua antica dal fiume ipogeo della memoria. Non è una città. Non ha confini: è più estesa del mare che la lambisce. Non la si può visitare: la si deve “sentire”. 

E’ perennemente in “fieri”, una eterna incompiuta smaniosa di salire sino al cielo: si specchia negli occhi delle donne che camminano sul lungomare chiamato “Vollga”. 

Una lunga fila di alberghi e attività varie che devono condividere l’esistenza con gli anziani che giocano a domino sulle panchine e sulle gradinate che conducono alla piccola spiaggia in cui la vita letteralmente esplode in estate.

Durazzo è nelle risate dei bambini che si rotolano sul bagnasciuga, tra le pieghe delle braccia delle donne che prendono il sole su lettini male in arnese, nelle conchiglie che fanno capolino su quel pezzetto di sabbia gremito di vite, di gioia, di musica e in cui s’incontra qualche cane ramingo alla ricerca della felicità. 

A pochi metri di distanza, le superfici lucide dei locali più alla moda, le cacofonie delle canzonette estive, la voglia di colmare un vuoto: due volti che comunicano attraverso la stessa bocca due lingue in antitesi. 

Quello spicchio di sabbia rossa è l’Albania: è la vita che trionfa sul cemento, è la confusione che si trasforma in forma d’arte e si colora al calare della notte. Non appena tramonta il sole, sbocciano giostre coloratissime quasi fossero fiori, bancarelle su cui si vende di tutto e un po’, e, in mezzo a tutta questa sarabanda, venditori di zucchero filato rosa rallegrano il mondo circostante e anche me. 

In pochissimo tempo, la città si riversa in quella manciata di metri fatati. 

Cammino con la macchina fotografica a tracolla che sbatte in qua e in là; una piccola donna vende zucchero filato a una fila interminabile di bambini e bambine: ognuno di loro in mano tiene quei pochi “lek” che servono per ottenere la dolce nuvola morbida abbarbicata su un modesto stecco di legno. Sono assieme ai loro genitori e per un istante, un istante soltanto, riesco a “sentire”, a capire. “Tregon gjyshja nga herë, na ishte seq na ishte, na ish një herë një djalë, si veten shokët kishte. Dhe unë duke dëgjuar, shikoj me sytë e mi, një trim duke luftuar, për fatet e lirise”. Sono le parole della canzone dedicata alla nonna che si abbracciano a note dolci, buone, smussate; coprono le voci, gli schiamazzi e le risate. 

I bambini la canticchiano e io penso ai miei nonni, agli abbracci perduti, alle rughe, allo scorrere del tempo, all’addio senza fine. 

Durazzo è questo: ti scava nel petto con le note della “Canzone della nonna”, “Kenga e Gjyshes”, e ti innalza ben al di sopra dei palazzi che ne soffocano la costa, dei ristoranti e degli alberghi che la punteggiano. Lo zucchero filato si trasforma in un sentiero che fonde l’”io” alla città stessa e ad ogni passo corrisponde una lacrima. 

Decido di addentrarmi nel centro: m’insinuo furtivo tra una pletora di condominii incomprensibili per forme e colori. 

Fili elettrici neri e spessi coprono la volta del firmamento. Paiono centinaia di grossi serpenti scuri abituati alla presenza dell’uomo. Ogni singolo appartamento è a sé: non credo esista la figura dell’amministratore e quantunque esistesse non vorrei trovarmi nei suoi panni. 

E’ una sorta di anarchia edilizia, la quale la rende diversa da tutte le altre città. Pasolini sceglierebbe tra questi volti gli attori dei suoi film. Qui, come già detto, la borgata è viva e parte integrante dell’oggi. Mi sento luminoso, respiro aria di casa. 

Accarezzo le mura bizantine, mi lascio alle spalle l’Anfiteatro romano e il Museo Archeologico. 

Lo zaino si fa pesante, avverto una crescente spossatezza e decido di entrare nel primo “byrektore” che incontro. 

L’interno è ricoperto di piastrelle bianche arabescate con tinte azzurre e blu, l’insegna è verde, gialla e arancione. Bello, no?

Ho scelto quello giusto, perché le varietà di “byrek” sono innumerevoli. Il profumo del tipico piatto balcanico mi sussurra alle orecchie e mi riempie i polmoni. Quattro o cinque persone avanti a me: poco male, attendo paziente. Sopra la testa dell’anziana proprietaria, una croce ortodossa e un Corano. 

Lei cristiana, lui musulmano, insieme da una vita: pietre preziose che compongono il mosaico del mondo che vorrei. 

Suona il telefono e rispondo in italiano: il mio “Pronto?” fa voltare tutti gli avventori. Uno di loro mi fa

cenno di passare avanti a tutti. Da ultimo mi ritrovo primo della fila, perché l’ospitalità da queste parti si respira, è una cosa seria, un rito antico che resiste all’incalzare delle illusorie “novità”. Nelle mie mani, l’involto di carta che contiene una forma calda e fumante di beatitudine culinaria: “byrek” al formaggio. Sul bancone, la mia immancabile bottiglietta di kefir.

I clienti e la proprietaria mi consigliano decine di luoghi da visitare. Ho solo una cartina e una matita e così ognuno di loro appunta il nome su di essa di tutto ciò che devo, inderogabilmente, vedere. 

Non sono un turista e fatico a farglielo comprendere: la mia scrittura è nelle scarpe; un giambo che ha come ritmo il passo, il rumore della suola sull’asfalto. 

Il mio “sentire” è riversato nelle righe del taccuino rosso che porto nella tasca destra del multitasche. 

Non sono a caccia di fotografie: voglio farmi rapire dalla città in cui mi trovo ora e sprofondare nei suoi meandri, esplorare ogni anfratto, rubarne frammenti di vita. 

Mentre sono intento a spiegare tutto questo al piccolo uditorio, la donna mi porge un altro involto unto e pesante: “byrek” ripieno di carne, che non devo assolutamente pagare. Sono ospite, vengo da fuori, è gratis: << Mangialo, è appena fatto >>, dice .

Se chiudo gli occhi, sento ancora il sapore del primo boccone e la sua sacralità: è il gesto di un’umanità autentica, la quale anima il mio girovagare e dà un senso a ciò che scrivo; nelle stanze del mio cuore riecheggiano tuttora le note del ritornello della “Canzone della Nonna”:

“[…]E’ dolce la voce della nonna

quando la storia mi narra,

e leggera è la sua mano 

che mi accarezza il capo.”

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