Una fase del lavoro della raccolta del grano totalmente scomparsa
Negli articoli precedenti si è cercato di fornire un quadro completo sulla grande mole di lavoro che un tempo dovevano sostenere i contadini per assicurare che la raccolta del grano e la successiva trebbiatura avessero un andamento certo e fruttuoso. Si sono messe in evidenza, in base alle competenze e alle testimonianze di Radames Garoia e Nivalda Raffoni, le varie fasi soprattutto di quando tali operazioni venivano svolte dapprima senza ausili di mezzi meccanici e poi con l’introduzione delle prime trebbiatrici. Fra le varie fasi di lavoro va ricordata la spigolatura, un’attività da decenni totalmente scomparsa, che con il contributo dei due studiosi di tradizioni popolari cercherò di illustrare.
<<Finita la mietitura e dopo che i covoni erano stati portati nell’aia per l’edificazione del barco”, esordiscono Radames Garoia e Nivalda Raffoni, “si poteva ‘andé a spighé’ (andare a spigolare), cioè praticare la raccolta delle spighe che, per diversi motivi, rimanevano nei campi: una legatura difettosa di un covone, oppure il distacco della spiga dallo stelo durante l’ammassamento in barchetti o nell’operazione di carico nel carro.
Prima della mietitura, le famiglie dei braccianti chiedevano ai coloni l’autorizzazione a recarsi nei loro campi. A queste prioritariamente, veniva concessa alle mogli e ai figli di operai e braccianti agricoli della zona che avevano prestato qualche ora gratuita di manodopera nei momenti di maggior bisogno. La concessione alla spigolatura era una consuetudine quasi unanime, purchè si facesse a campo vuoto (“…non potrà far spigolare se non fatte le cove e levate dai campi…”, diceva testualmente un contratto a mezzadria dell’800), anche se si verificava qualche eccezione.
‘E spigàz’ (lo ‘spigazzo’, risultato dalla spigolatura) era un po’ di grano che garantiva farina e pane, specialmente per famiglie con precarie condizioni economiche e con tanti figli da sfamare. In un grande gesto di solidarietà, come i contadini e i padroni dei poderi che acconsentivano a tale pratica, anche il proprietario della trebbiatrice e gli operai addetti, non facevano pagare la trebbiatura di queste piccole quantità di grano, frutto di così misero lavoro>>.
<<Ottenuto il permesso, ‘al spigaroli’ (le spigolatrici) si recavano al mattino presto nei campi”, continuano Radames Garoia e Nivalda Raffoni. “Con sé portavano “la ligaza” (involucro costituito da una tovaglietta o un tovagliolo un pò più grande del normale, in cui i quattro angoli erano legati a due a due, secondo le diagonali), con pochi alimenti per la colazione, che si consumava verso le 8 circa. Prima dell’inizio del lavoro, per tenere il cibo lontano da formiche ed insetti dannosi, la agganciavano il fagotto ad un’albero, in una zona d’ombra (tra un campo e l’altro erano sempre presenti filari con piante da frutta o da legname). ‘Mangot e gambel’ (manicotti e gambali)
proteggevano le spigolatrici, specialmente nelle braccia e nelle caviglie, da escoriazioni e possibili ferite causate dagli steli secchi del grano (lo strame) tagliato. Nonostante ciò, si verificavano tagli e ferite che causavano fastidio per alcuni giorni. Se avessero indossato un paio di pantaloni non avrebbero avuto questi problemi, ma un tempo era inopportuno e immorale che una donna portasse i pantaloni, simbolo del potere autoritario dell’uomo, del marito, capofamiglia e ‘arzdor’, simbolo a cui bisognava portare rispetto. Succedeva solo nelle insinuazioni maligne a proposito di quegli uomini che si facevano soggiogare dalle mogli: “l’è tent pataca che a cà su i calzon u i porta la su moj” (è tanto fesso che a casa sua, i pantaloni li porta la moglie)>>.
Curve, muovendo le braccia a ventaglio, cercavano le spighe con gli occhi fissati in mezzo agli innumerevoli e appuntiti steli presenti nel suolo. Se le spighe avevano un pò di gambo, realizzavano piccoli mazzi, tenuti con la sinistra, mazzi che legavano con gli stessi steli e li depositavano in fila ai bordi del campo; poi, con l’utilizzo di una falce, tagliavano gli steli sporgenti sotto la legatura effettuata e mettevano il mazzetto cosi rimasto, in un sacco di tela.
<<‘Al spighi sgarguzedi’ (quelle senza stelo), venivano raccolte ‘int’la faldeda’ (il grembiale rivoltato e legato alla cintola a mò di contenitore) e poi, quando questa era piena, nello stesso sacco” ricordano Radames Garoia e Nivalda Raffoni. “Tale contenitore veniva tenuto al sole, per togliere l’umidità del mattino.
Mosso a compassione da queste donne, ambasciatrici di proverbiale povertà, qualche vecchio della famiglia colonica (il nonno o lo zio anziano) o la donna di casa, se non era molto distante, portava loro acqua e vino per dissetarsi e per scambiarsi quattro chiacchere in questa breve pausa.
Con la spigolatura, che poteva protrarsi per oltre una settimana, una famiglia di braccianti riusciva a raggranellare circa un paio di quintali di grano, che tradotto in farina, garantiva pane per buona parte dell’inverno. Il grano era talmente prezioso che molti lo conservavano nella camera dove dormivano, accanto al letto matrimoniale, utilizzando i sacchi come comodini.
Alcuni coloni preferivano che a spigolare fossero i componenti della famiglia, specialmente in quei nuclei domestici in cui erano presenti anziani, bambini e ragazzine, persone che avevano disponibilità di tempo per praticare questo lavoro, per avere una ulteriore quantità di grano da aggiungere al normale raccolto, sempre scarso e non sufficiente al fabbisogno necessario.
Specialmente nella parte più vicina all’aia colonica, a volte si preferiva lasciare le spighe nei campi per alimento al pollame della casa e, deciso di concedere loro tale privilegio, si vedevano decine di ‘poll, zecul, biré, faron e filep’ (polli, anatre, tacchini, faraone e “filippine”, galline nane originarie dell’arcipelago del sud-est asiatico), stendersi a ventaglio nei campi in cerca del prezioso alimento. In alternativa, le spighe venivano raccolte, ma non trebbiate: si mantenevano in luogo asciutto e somministrate, poco alla volta, in pasto ai sopracitati animali da cortile ed ai conigli>>.
<<Del grano non si buttava niente” concludono Radames Garoia e Nivalda Raffoni. “Dopo la mietitura, il residuo del gambo del grano vicino il terreno (strame), alto 30-35 centimetri, era tagliato con la ‘màchina da sghê’ (la stessa macchina che si usava per lo sfalcio del fieno). Raccolto, rastrellato e portato nell’aia, si accatastava in un piccolo pagliaio e si usava prevalentemente per alimentazione del bestiame, mescolato ad altri foraggi, oppure per lettiera dello stesso, mescolato con la paglia o in sua sostituzione.
Lo strame, da solo, non era gradito alle bestie, perché i gambi secchi e rigidi ‘foravano’ in bocca agli animali, ma l’insieme strame/erba era molto gradito essendo più tenero e digeribile.
Se non si utilizzava da fresco veniva conservato per fare ‘la trida’ che era un trito di foraggi di scarto, fieno scadente da erbe selvatiche, rive dei fossi o falciatura della vigna, oltrechè allo strame, trito che si otteneva con l’uso di una macchina tritatrice, presente in molte case coloniche e grandi poderi (specialmente in pianura). Chi non ne era in possesso, si avvaleva di qualche contoterzista che, proprietario di grossa macchina motorizzata, effettuava l’operazione a domicilio dell’interessato ed in poco tempo tritava tutto lo scarto che era stato raggruppato>>.
Gabriele Zelli
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