Faxian taccuino di viaggio di Jacopo Rinaldini
Nuova puntata di “Faxian, taccuino di viaggio” rubrica di Jacopo Rinaldini. In questa puntata si concentra su un’esperienza cesenate.
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Puntuale, ogni mattina, la mia sveglia lintona le sue note stridule alle ore 6:30. Puntuale, ogni mattina, esco di casa alle 7:00. Sulla porta, però, mi fermo estatico. Puntualmente, avverto la profonda necessità di dare un’ultima sbirciata alla mia casa: quattro stanzucce accoglienti, calde, in cui trovano riparo i ricordi d’una esistenza lunga ventinove anni.
Sussurro, prima di andarmene, un flebile “Ci vediamo dopo” a lei che teneramente cerca l’abbraccio delle coperte più pesanti per fuggire alla stretta della grigia frescura del primo mattino.
Uscire e respirare a pieni polmoni la corroborante aria d’un mondo in procinto di svegliarsi, benché nel centro d’una città, è un rito rinfrancante. Il freddo che scende giù e riempie i polmoni ti dà il suo buongiorno e lo fa con gioia. Il primo passo verso la meta è l’azione più importante della mia marcia quotidiana.
Un primo piccolo passo, il quale cela, con la sua ancestrale semplicità, una possibile avventura.
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Il Savio talvolta tumultuoso, talvolta placido, rimira il cielo sopra di sé. Il suo scrosciare poderoso rammenta alla città che lui, lui solo, è il sovrano di questo angolo di mondo posto tra la collina e la pianura. Pare che dorma quando è tranquillo, incuneato nel suo letto verde, il quale altro non è che una fettaccia di terra che spacca in due la città.
Mi sento come Marcovaldo mentre percorro la passerella del ponte e con la mano raminga cerco l’appoggio del metallico parapetto dipinto di rosso. Le assi di legno scricchiolano senza posa sotto ai miei piedi. Si lamentano, inveiscono contro di me con i loro “Cric, croc, crac” sordi. Gli insulti peggiori, però, li riservano ai ciclisti, che pestano come dannati sui pedali e corrono, corrono incuranti di tutto.
E’ tutta una sinfonia di improperi.
Povere assi, povero ponte, che unisci ciò che è distante, trattato con così poca grazia e così poca poesia.
Inizio la tradotta lungo via Cesare Battisti, una via un po’ bislacca a dire il vero.
Le mattonelle che lastricano la sua anima, i lampioni che la proteggono dalle tenebre e i palazzoni che la costeggiano, abbruttiti dallo scorrere del tempo, traggono vita da una sgradevole disarmonia, la quale è divenuta “essenziale”: una bruttezza manifesta, autoreferenziale, entrata prepotentemente nell’immaginario dei cesenati moderni.
E’ così e non può essere diversa.
Ciononostante, quei paciosi palazzoni, che rasentano una sconcezza quasi dolce, sono, quantunque per poche decine di metri, punti di riferimento che guidano il mio incedere.
Statici e stolidi compagni di viaggio, giganti di cemento animati dalla curiosità: avidamente osservano il tramestio della vita che scorre sotto di essi. Cammino in questo surreale prodotto dell’inurbamento nostrano a guisa d’un uomo, prigioniero in un labirinto, che cerca salvezza.
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