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Don Angelo Savelli e l’ebreo Giuseppe Milazzo: un’amicizia ai tempi del Secondo conflitto mondiale

Riprendo il racconto delle vicissitudini affrontate durante il Secondo conflitto mondiale e la Resistenza da don Angelo Savelli, parroco di Casale di Modigliana. Nel libro “La guerra nelle mie valli” l’autore Luigi Cesare Bonfante riporta la testimonianza di un giovane ebreo, Giuseppe Milazzo, che sta cercando di oltrepassare il fronte. Non sappiamo attraverso quali percorsi Milazzo arrivi fino a Borsignolo dove trova due famiglie di sfollati (Naldoni e Scarpi) ed un giovane; tutti attendono d’essere condotti nelle zone liberate. Scrive Bonfante: “In attesa di partire nel tentativo di passare le zone dove si sta combattendo, alla sera a Borsignolo si recita il rosario e tutti rispondono. Milazzo, che è del posto, ode la moglie che dice piano ad una vicina che quell’uomo giovane, che sta da solo, è un prete. Un’altra donna, finito il rosario, dice sottovoce ai suoi parenti, riferendosi al giovane: “Quell’uomo, nel dire il rosario, dice una frase che dicono solo i sacerdoti”. Milazzo accende una sigaretta e vede il giovane che si avvicina a lui e cerca di aspirare il fumo. Milazzo gli offre allora una sigaretta e vanno poi insieme a fumare da una parte. Il giovane confida a Milazzo d’essere un prete: è don Angelo Savelli, ha trent’anni, nativo di Ladino, ha studiato a Faenza, è stato tenente cappellano, ha fatto la guerra ed ora è parroco di Casale di Modigliana. Imprigionato dai tedeschi è riuscito a liberarsi e tornare a Casale, ma il 5 ottobre precedente ha dovuto fuggire di lì perché sono stati uccisi dei militari tedeschi vicino alla sua parrocchia e le SS lo stanno cercando. Prima è stato nascosto, poi saputo della possibilità di oltrepassare il fronte è arrivato a Borsignolo. I due diventano amici”. 

Il giorno successivo, al mattino presto  le due famiglie Naldoni e Scarpi, don Savelli e Milazzo partirono da Borsignolo accompagnati da Giuseppe Martini, originario di San Benedetto, esperto conoscitore di sentieri e percorsi nascosti che faceva da guida a coloro che desideravano andare oltre il fronte. “Martini è davanti”, riporta Bonfante, “è un po’ zoppicante e marcia con un bastone. Al di là della Capannina scendono a valle, verso Tredozio, andando verso Viarana (quando non sceglie la via di Piantaneta e Monte Martino. Martini, a volte, se conduce persone non armate, va a Viarana, sale di lì alla strada provinciale, l’attraversa e va subito di là per la strada campestre che mena alla Forca e sul crinale, scende al Pantano e va al Poggiolo di Burgomana, dove questo percorso si congiunge con quello solito proveniente dal Monte Martino, di là da Piantaneta) e prosegue; la strada che collega Viarana alla provinciale è stata minata ai lati. Il gruppo oltrepassa le case di Viarana, raggiunge per la stradina tra i filari la strada provinciale, quando Martini ice: ‘ci sono i tedeschi!’, ma suggerisce al gruppo di fare finta di niente e di proseguire. Ma i militari, avendoli scorti, sparano un paio di raffiche in aria e lo circondano; Beppone, uno degli sfollati, si dà alla fuga ed è inseguito da due tedeschi a cavallo che lo raggiungono e lo fermano. Una delle donne del gruppo, terrorizzata, si mette ad urlare. Altri tedeschi accorrono, fermano il gruppo e lo conducono a Piantaneta chiudendolo in una stalla. Anche Martini è condotto qui, ma separatamente, perquisito ed interrogato. Ci sono due marescialli (uno è buono, l’altro, cogli occhi a mandorla, è cattivo) e 5 – 6 militari, quasi tutti con occhi da cinesi (sono russi arruolati nella Wehrmacht); hanno cavalli. I prigionieri vengono interrogati; don Savelli se la cava subito; Milazzo fatica di più a convincere i tedeschi che la loro intenzione era solo quella di tornare a casa. D’accordo con gli altri del gruppo, Milazzo e Savelli dichiarano di far parte della famiglia Naldoni e d’essere i fidanzati delle due ragazze Argia e Piera. 
Martini, sempre tenuto separato dagli altri, viene portato a Viarana. Milazzo ha un paio di occhiali in tasca e se li mette, facendo finta di non vederci, nella speranza che i tedeschi non lo portino con loro. I tedeschi si fanno servire dai prigionieri: fanno tagliare la legna a Milazzo e gliela fanno portare in casa; lui fa finta d’inciampare e cadere. Don Savelli gli suggerisce di non insistere tanto: il suo cognome, essendo un nome di città, indica che egli è ebreo. ‘Col cognome che hai tu, è meglio che cerchi d’andarmene per conto mio!’, dice ridendo don Savelli; ma poi sta sempre con Milazzo”.

Nei due volumi citati Luigi Cesare Bonfante, grazie a testimonianze raccolte nel corso di molti anni di lavoro, riesce anche a ricostruire il seguito della storia che vede protagonisti don Savelli e Milazzo. Alla data di domenica 22 ottobre 1944 scrive che in quel giorno le famiglie Naldoni e Scarpi, “giunte ad Albero dopo aver attraversato il fronte a Tredozio, vanno a messa e trovano che il celebrante è uno dei due giovani, ora a disposizione dei militari indiani (soldati sikh appartenenti all’Ottava armata britannica), che è stato con loro a Borsignolo di San Valentino. Egli dice poi d’essere don Angelo Savelli, d’essere il capo dei partigiani della sua parrocchia e di non aver detto nulla prima perché era ricercato dai tedeschi. Don Savelli e Milazzo, successivamente, sono portati dai soldati indiani alle Botteghette della Badia del Borgo di Marradi. Le due famiglie, lasciate libere, partono da Albero, gli Scarpi diretti a Biforco ed i Naldoni verso Casaglia; lassù trovano la loro casa occupata dagli inglesi, che, cortesemente, si ritirano nell’aula della scuola e restituiscono l’appartamento”.
Il giorno successivo, lunedì 23 ottobre 1944, don Savelli, Milazzo e un’altra persona Elio Naldi, in qualità di prigionieri dei militari indiani vengono trasferiti con un camion a Vicchio di Marradi dove sono presenti diversi altri profughi. Da qui don Savelli e Naldi vengono nuovamente sposati al campo di Castiglion Fiorentino, presso l’aeroporto. Qui Naldi ritrova suo padre. Mentre don Savelli, che è vestito da civile, si presenta al cappellano dichiarando di essere sacerdote. Naldi, che ha regolari documenti, garantisce per lui. Don Savelli viene liberato e poiché i prigionieri vengono man mano trasferiti a Roma chiede di essere condotto nella capitale. Ciò avviene qualche giorno dopo sempre su un camion dove fra i prigionieri ritrova Milazzo. Giunto a destinazione don Savelli, che nel frattempo aveva ottenuto un lasciapassare, andò per i fatti suoi, mentre Milazzo fu trasferito con altri al campo profughi di Cinecittà. Milazzo restò in attesa di ottenere il permesso, che tarda va ad arrivare, per partire per la Sicilia. Un giorno vide arrivare al campo un prete regolarmente vestito, coi gradi di tenente cappellano: era don Savelli, che, presentandosi, era stato nuovamente ricollocato in servizio nell’esercito. Informò Milazzo che si era interessato alla sua sorte e di sperare per il meglio. Difatti, dopo pochi giorni, il sacerdote portò un permesso che consentiva al giovane ebreo di raggiungere la propria casa in Sicilia. Salutato affettuosamente l’amico, Milazzo raggiunse la stazione e salì su un treno verso sud. La locomotiva procedette lentamente e a fatica a causa delle interruzioni e delle soste. Finalmente, ed era già novembre, giunse al suo paese, Aidone di Enna. Erano passati quasi tre anni da quando era partito, giovane recluta, per Forlì ed i suoi, persa ogni speranza, avevano già attaccato al portone di casa i tradizionali segni del lutto. 

Gabriele Zelli 

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