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Alla scoperta del Kosovo

Jacopo Rinaldini intervista l'artista Dafine Vitija

Dafine Vitija è un’artista kosovara. È stata intervistata da Jacopo Rinaldini. Una chiacchierata che va oltre l’artista e, per questo, consente di conoscere un territorio dilaniato dal tremendo conflitto.

Lunghi capelli neri, occhi davanti ai quali si è consumato un conflitto osceno, terribile e brutale. Nella sofferenza, una goccia di freschissima rugiada, la quale ha spazzato via la siccità dovuta all’afflizione. I suoi quadri sono finestre metafisiche aperte su un oceano di speranza e fiducia fatto di tradizioni e amore per la propria terra. I colori di Dafine Vitija profumano d’antico e moderno contemporaneamente. C’è tutto: cultura, idee, concetto, originalità e tecnica. 

Mi pare di vedere, tra le brume serali, una delle donne dipinte da Dafine camminare lungo l’argine del fiume Savio e perdersi nel riflesso della luna, che tintinna senza rumore sul pelo dell’acqua.

Dafine Vitija, chi è?

“Non amo parlare di me”.

Il Kosovo è un piccolo universo particolarissimo: un tratto di penna talmente sottile da risultare senza confini. Solo chi lo ha attraversato, vissuto e capito può comprenderne la singolare unicità. 

Parlami del tuo Paese: dimmi cosa ti lega così saldamente ad esso.

Il Kosovo è il luogo in cui sono nata e cresciuta. Tutto ciò che fa parte del mio essere, ciò che sono e non sono come si usa dire dalle mie parti, lo devo Paese che mi ha dato i natali. 

Martoriato per lungo tempo, ha vissuto alti e bassi e numerosi processi trasformativi. 

Faccio parte della generazione degli anni Novanta e durante la mia fanciullezza, dinanzi ai miei occhi, è cambiata la storia del mondo che abitavo e abito tuttora: la nostra quotidianità è mutata radicalmente. Ciò ha toccato nel profondo le nostre emozioni, ci ha cambiati e ci ha anche caricato di un pesante fardello, una enorme responsabilità; ossia l’obbligo di dover dare un contributo tangibile, concreto, reale.

Sogno e immagino un futuro fatto di giorni migliori rispetto a quelli che abbiamo vissuto”.

Il genere artistico a cui ti senti maggiormente affine e chi è, se c’è, l’artista che chiami “maestro”?

“Ripercorrendo il tempo a ritroso, facendo lunghi passi, incontrerei nuovamente l’amore per i colori accesi, le forme e i soggetti peculiari; tuttora, la mia ricerca corre lungo questa direzione. 

Apprezzo stili differenti, i quali mi hanno tutti, più o meno, influenzata; pertanto, non riesco ad identificarmi unicamente con una corrente o un periodo. 

Se dovessi indicare l’artista, secondo me, più completo, complesso e articolato, in quanto sperimentatore e rivoluzionario, sarebbe Picasso. 

Altresì mi sovvengono taluni pittori del periodo “Bauhaus”, che hanno costituito parte delle fondamenta che sorreggono l’arte moderna. Uno smisurato universo che si erge sul concetto, su ciò che va oltre l’immagine, piuttosto che sulla bellezza, sull’armonia e sulla tecnica”. 

Ritieni che l’arte possa essere uno strumento per pacificare popoli in conflitto?

“Se la pace dipendesse unicamente dall’arte, indubbiamente ci muoveremmo in una dimensione più serena e tranquilla.

Mondo dell’arte e mondo della politica sono opposti, in conflitto e contrastanti per principi e contenuti. Eppure, si sa che tanti politici, i quali alimentano guerre e conflitti, alla fine della giornata in cui hanno seminato divisione e alimentato violenza ritornano nelle loro case tappezzate di quadri e oggetti carichi di significato. Quindi? L’arte non contagia la sensibilità di chiunque. 

L’arte, però, fa in modo che artisti di paesi in conflitto tra loro possano incontrarsi, conoscersi e dipanare la matassa del filo spinato che divide e logora i rapporti umani. 

Ad esempio, ho partecipato a mostre collettive assieme a numerosi pittori di etnia serba: questo nonostante il conflitto, la guerra, che ha colpito duramente me e la mia famiglia, dal momento che mio nonno è rimasto vittima delle violenze perpetrate dai gruppi di etnia serba.

L’arte non riserva spazio al rancore. 

La mia speranza è che in futuro, allorché i politici saranno sazi di conquistare il potere, gli artisti prendano il loro posto come giusto che sia”. 

Può l’arte far germogliare i fiori di cui il Kosovo è ricoperto?

“Direi di sì: ha aiutato l’immagine del Kosovo più di qualsiasi altra cosa. 

Oggigiorno, sono innumerevoli gli artisti nati a Pristina che svolgono la funzione di ambasciatori privilegiati del Kosovo: tra tutti, Dua Lipa e Rita Ora. La loro musica fa riecheggiare il nome del Kosovo in luoghi in cui nessuno lo aveva mai sentito neppure nominare. 

Un Paese che ha generato uomini e donne pieni di immane talento: dei visionari come, per esempio, Petrit Halili, Flaka Haliti (Flaka Haliti ha partecipato alla Biennale di Venezia del 2015 ndr).

Costoro sono l’espressione della genialità che alberga da queste parti”.

Il Kosovo, pur essendo lacerato da antiche ferite mai del tutto sanate, quali opportunità è in grado di offrire ad una giovane artista emergente?

“Terminata la guerra si è piombati un lungo periodo di transizione e, come sarebbe accaduto in qualsiasi altro Paese, la cultura non è stata percepita una priorità. Di conseguenza, gli investimenti pubblici e privati scarseggiano.

Gli squarci si stanno richiudendo, eppure i segni rimarranno visibili per un tempo incalcolabile; tuttavia, tento di trasformare i drammi del passato in qualcosa di “trionfante” e di incastonare l’immagine di ciò che è stato nei miei quadri”.

Cosa puoi donare al Kosovo?

“Ho molto lavoro ancora da fare: non amo parlarne troppo e non apprezzo gli elogi in generale. 

La mia terra è presente in ogni creazione che vede la luce. Ho iniziato con la serie “Etno Motife” che ora conta circa cento quadri. Si tratta di un rapporto indescrivibile: il Kosovo è un fondamentale frammento d’oro della mia formazione”.

Nei tuoi quadri vedo tracce di “Realismo magico”, sbaglio?

“Può darsi, ciononostante non riesco ad osservarli con gli occhi del pubblico. Le tracce del “Realismo magico” che scorgano sulle mie tele sgorgano direttamente dalla mia anima e dal mio stato interiore. Non è ‘cercato’ “.

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