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La crisi politica e il ruolo dei giornali

Ora c'è un nuovo modo di fare informazione

CESENA. In attesa di conoscere quale sarà la decisione dei 5Stelle per quanto riguarda l’appoggio a Draghi, è interessante notare come i quotidiani hanno seguito l’evolversi della crisi politica. Non tutti danno la stessa lettura. Prendiamo Il Fatto Quotidiano. Il giornale diretto da Travaglio era il principale sostenitore di Conte e si comportava di conseguenza. Ora, invece, è più freddo sul governo Draghi e sull’appoggio dei 5Stelle. Non a caso oggi, in prima pagina, titola: Ma un ministero vale il sì all’ammucchiata? Chiaro il riferimento all’istituzione del dicastero della transizione ecologica chiesto espressamente da Beppe Grillo e soluzione che potrebbe orientare il voto della base pentastellata.

Ma quello de Il Fatto è solo un esempio. Una cosa però è certa: questa crisi ha dimostrato che il giornalismo è cambiato, forse in modo definitivo. Quello d’opinione si è ritagliato uno spazio sempre più importante e sta diventando prioritario. Evoluzione fondamentale alla luce soprattutto dell’esplosione del web dove la cronaca è invece l’elemento prioritario e che brucia continuamente le notizie.

Quindi dovremo abituarci ad avere giornali sempre più schierati. E’ giusto? Assolutamente sì, a prescindere dal fatto che l’esplosione del web abbia obbligato a modificare la proposta dei quotidiani cartacei. I giornali non possono essere un bollettino e proporre pedissequamente i comunicati stampa o i lanci di agenzia. I giornali devono avere un’anima, un’identità. E questo significa prendere posizione essendo consapevoli che non si può piacere a tutti.  Quella che però è fondamentale è l’onestà intellettuale.

C’è una regola: separare i fatti dalle opinioni. Cosa che, per la verità, succede sempre meno in quanto la commistione è sempre più spinta. Perciò la notizia resta tale e nessuno deve essere censurato, ma ognuno deve dare la propria interpretazione  che non può che essere in linea con il pensiero dei propri lettori. Vittorio Feltri, ad esempio, non potrà mai dirigere un quotidiano progressista. Non perché non ne sia capace, ma perché le sue idee non sarebbero in sintonia con i lettori di quel giornale che quando è nato si è dato una chiara linea editoriale per rivolgersi a un determinato pubblico. Perché, in fin dei conti, anche il prodotto editoriale deve sottostare alle regole del mercato: creare un brand e metterlo nelle condizioni di aggredire una nicchia più o meno ampia e che, comunque, sia sufficiente per garantire il ritorno economico necessario.

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