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I provvedimenti dell’Amministrazione forlivese contro la “Spagnola”

Di recente, su queste pagine, ho analizzato sommariamente quanto successe a Forlì e a livello regionale nel periodo, 1917/1918, in cui era in atto una devastante emergenza sanitaria determinata dalla diffusione della cosiddetta “Spagnola”. Da una relazione presentata il 29 ottobre 1918 dall’allora sindaco di Forlì, Giuseppe Bellini (1862 – 1932) al Consiglio Comunale sui provvedimenti adottati dall’Amministrazione Comunale per combattere l’epidemia influenzale, si può comprendere meglio le difficoltà e le sofferenze che furono affrontate nei lunghi mesi pecedenti. Essendo venuto in possesso del documento, del quale a suo tempo fu realizzata una pubblicazione presso la Cooperativa Topografica Forlivese, propongo il contenuto ai lettori, perché sono certo che riuscirà a riscuotere interesse in un fase in cui si sta lottando contro una nuova e virulenta pandemia causata dalla diffusione del virus Covid 19.
La relazione in questione è divisa in capitoli e il primo è dedicato all’organizzazione del servizio sanitario. Scrive il sindaco Bellini: “L’epidemia d’influenza che, per fortuna, volge ora al suo termine, ha trovato, al suo inizio, le condotte mediche del Comune sistemate in modo appena sufficiente per i bisogni normali. Infatti una delle condotte di città, quella del dott. Bofondi, era ed è ancora divisa a metà fra i dottori Lombardi e Mercuri; quella di San Martino in Strada (Gavelli) per richiamo alle armi del dott. Gugnoni, erano scoperte e disimpegnate, per quanto possibile, dal dott. Chiadini. La deficienza di sanitari si aggravò subito, perchè il dott. Conti, titolare della condotta di Bagnolo-Carpinello, si ammalò e dovette star lontano dal servizio per circa 20 giorni; il dott. Mercuri, il dott. Chiadini, il dott. Ciani a loro volta furono colpiti, ma – fortunatamente – per brevissimo periodo.
L’Amministrazione Comunale cercò dapprima di trovare sanitari fuori di Forlì e potè ottenere che il dott. Viscardo Biagini, medico a Castel San Pietro, abbandonasse quella condotta e accettasse quella di San Martino in Strada; poi, riuscitole impossibile qualunque altra ricerca, si rivolse all’Autorita Militare e chiese con decisa insistenza che le fosse concesso l’ausilio di medici militari. Dopo laboriose pratiche, se ne ottennero due, ad uno dei quali fu affidato il servizio dei profughi, all’altro la condotta di città di cui è titolare il dott. Gavelli, disimpegnata prima dal dott. Gugnoni. Di più qualche altro medico militare fu lasciato a disposizione del Municipio nel pomeriggio per le chiamate rimaste inevase”.
“Si può concludere che l’assistenza medica, malgrado le enormi difficoltà”, è la valutazione del sindaco Bellini, “non mancò mai nel nostro Comune, come – purtroppo – è avvenuto invece in moltissimi altri, ed anche nei principali”, che poi passa ad esaminare quanto avvenne sul fronte dell’assistenza sanitaria ospedaliera, perché: “Dopo pochi giorni dall’inizio dell’ epidemia, l’Amministrazione Comunale dovè preoccuparsi subito della possibilità che il padiglione d’isolamento del Civico Ospedale non fosse in grado di accogliere tutti i malati, bisognosi di cura e ricovero. Furono subito affrontate e condotte rapidamente a termine le pratiche per impiantare un altro ospedale nei locali del Convitto Comunale, appena sgomberati dalla Croce Rossa e che stavano per essere adibiti ad uso scuola. Presi accordi con la Congregazione di Carità e col Regio Prefetto; ottenuti, mercè l’ausilio di questo e del dott. Bertaccini, Presidente della sezione locale della Croce Rossa, a titolo di prestito, i materassi e le biancherie dalla Direzione Generale della Croce Rossa, l’Ospedale succursale fu improvvisato in pochi giorni, con 50 letti, che – occorrendo – potevano portarsi anche a cento. Il dott. Bertaccini, che, in tutta l’epidemia, diede opera veramente preziosa e disinteressata, assunse la direzione dell’Ospedale e vi dedicò tutte le sue cure. In tal modo non mancò mai a chi non potesse curarsi a domicilio, la possibilità d’essere ricoverato in Ospedale e nessuna domanda d’ammissione giustificata fu mai respinta”.
Altro problema che affrontato fu quello dei “Servizi igienici”, al quale il primo cittadino Bellini dedicò ampio spazio spazio in sede di consuntivo perché, come annota: “È necessario anzitutto premettere che nelle pandemie, o epidemie diffusissime, non si può ricorrere ai mezzi di difesa che si adottano per casi isolati di altre malattie infettive. Sarebbe infatti assolutamente impossibile praticare disinfezioni d’ufficio in ogni singolo caso, perchè occorrerebbero eserciti di disinfettatori provetti e disinfettanti in tale copia che non si saprebbe come procurarseli.
Le Ditte che hanno sempre fornito disinfettanti al nostro Comune, per quanto sollecitate, nulla hanno potuto mandare, perchè affollate di richieste da tutti i Comuni, che si sono trovati improvvisamente nelle medesime condizioni del nostro. Si potè ottenere dalla Prefettura qualche cassetta di sublimato, qualche latta di acido fenico, e qualche damigiana di formalina, ma questi materiali bastarono appena per provvedere alle disinfezioni ordinarie delle malattie meno diffuse e ai profughi accasermati. Dovette quindi escludersi in modo assoluto la possibilità di praticare disinfezioni in ogni casa colpita, anche perchè, – per fare una disinfezione radicale (l’unica veramente proficua) si sarebbero dovute allontanare almeo per 48 ore tutte le persone di famiglia, che – in momenti come questi, non avrebbero certamente potuto ricoverarsi altrove.
Si praticarono invece disinfezione nei luoghi di ritrovo, caffè, osterie, trattorie, si raccomandò a tutti la maggior pulizia personale, l’astensione dal frequentare luoghi affollati, dal viaggiare senza necessità, dalle intemperanze nel mangiare e nel bere. Furono subito chiuse le Scuole Elementari, si ottenne dal Prefetto la chiusura delle Scuole Secondarie prima, e dei Cinematografi dopo; si ordinò alla polizia urbana di curare il più possibile la pulizia delle strade e delle piazze, si soppresse la Commemorazione ai defunti e si proibì l’accesso al Cimitero.
Si sarebbe desiderato di intensificare il lavoro d’espurgo pozzi neri, ma ciò riuscì impossibile, sia perchè il materiale esistente fu appena sufficiente per le caserme e gli ospedali, sia perchè non si trovarono né botti inodore né motori, anche volendoli pagare a prezzi favolosi”.
Da ultimo il sindaco Bellini rimarcò le difficoltà in cui furono svolti i servizi funebri facendo notare come: “Il servizio del Camposanto si trovò di fronte a gravi difficoltà, che solo con notevole sforzo si poterono superare. Per quanto, nella grandissima maggioranza dei casi, l’epidemia sia stata assai benigna, pure, in tanta diffusione, il numero dei morti giornalieri subì uno sbalzo rilevantissimo. Il corpo dei necrofori, già ridotto di numero per le chiamate alle armi, perdette in pochi giorni due dei suoi componenti, e lo scavo delle fosse, per la mancanza di personale, subì un ritardo notevole. Si dovettero vincere le riluttanze degli operai braccianti per far disimpegnare loro questo servizio”; un servizio che alla fine di ottobre del 1918 si poté ritenere “alquanto regolarizzato”.
“In conclusione”, sono sempre parole del sindaco Bellini, “l’Amministrazione Comunale nulla ha trascurato, per quanto stava in lei, per combattere la malattia, per agevolare la cura e la assistenza dei colpiti, per adottare le misure igieniche atte ad attenuare la violenza del morbo”.
Secondo le ricerche effettuate da Lieto Zambelli e riportate nel saggio “Alla scoperta di nomi e luoghi, in città e dintorni”, pubblicato nell’ottimo volume “Primo Novecento e Grande Guerra. Il laboratorio forlivese”, a cura di Giovanni Tassani, Edizioni GrafiKamente, 2014, “A Forlì l’epidemia fu meno devastante che in altre località (ove si registrò fino all’80% della mortalità). Tra il maggio 1918 e il maggio 1919 si contarono circa 378 forlivesi morti”. “In proposito” aggiunge Zambelli, “non si sono potuti ottenere dati certi dalle scarne citazioni ufficiali archiviate. Pare che anche Forlì si sia allineata col resto del mondo nel rimuovere dalla memoria quell’esperienza terribile: alla fine dell’autunno 1918, a Torino come a Roma morivano 400 persone al giorno, nella costa orientale degli Stati Uniti d’America non si riusciva a produrre un numero adeguato di bare”.

Gabriele Zelli

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