La storia di un compositore sloveno
CESENA. Jacopo Rinaldini racconta la storia di Lojze Bratuž, compositore sloveno. Per molti di noi è un illustre sconosciuto, ma è un uomo con la U maiuscola e bene ha fatto Rinaldini a tracciare un suo ricordo e a farcelo conoscere.
Luigi Bertossi? No, Lojze Bratuž. Manifestamente mitteleuropeo, erede di quell’Impero affondato languidamente sulle note del “bel Danubio blu”, non ha mai rinnegato le proprie origini slovene neppure dinanzi all’ottusa efferatezza degli squadristi italiani.
Compositore, organista e maestro di cappella si sottrasse all’italianizzazione forzata di quello spicchio di terra che, sino a poco prima, era Impero Austro-Ungarico: la Contea di Gorizia e Gradisca.
Correva l’anno 1918 e la Contea di Gorizia e Gradisca veniva annessa al Regno d’Italia al termine della Prima Guerra Mondiale.
A tutta prima, Bratuž decise di non lasciarsi travolgere dalla brutalità esercitata dagli occupanti italiani, i quali portavano avanti a tappe forzate il progetto di italianizzazione dei territori balcanici; optò per una sorta di resistenza attiva e passiva al contempo, che si palesava mediante note e spartiti musicali.
Scelse di rimanere fedele a se stesso, alla cultura mitteleuropea, alla terra che gli diede i natali, alle finestre a bovindo, agli stucchi di maniera, ai colori pastello delle facciate delle abitazioni, alle sue montagne verdissime e profumate, alle pagine di Jospeh Roth e, probabilmente, all’immagine sfocata delle fedine dell’ormai defunto “Cecco Beppe”.
“Gott erhalte Franz den Kaiser”, in sloveno: “Bog reši Franciška Cesarja”.
In quel periodo, rivestiva il ruolo di insegnante di canto del coro del villaggio di San Martino Quisca (Šmartno) nel Collio Goriziano; successivamente, ricoprì la medesima posizione nel Seminario Minore di Gorizia.
Nel 1929 fu arrestato con l’accusa di “attività anti-italiane”, poiché si ostinava ad insegnare canti della tradizione slovena ai suoi ragazzi nonostante i veti e le minacce ricevute a più riprese.
Quantunque la prigione, perseverò nella sua attività sovversiva. Gli allievi, ostinati, lo seguivano.
La figura di Lojze Bratuž iniziò a risultare ingombrante e pericolosa.
Nel 1937 fu prelevato da una torma di esaltati squadristi, i quali, eterni sconfitti, diedero di piglio alle bastonate.
Il pestaggio fu brutale. Non paghi di ciò, obbligarono il musicista sloveno ad ingurgitare olio di ricino miscelato ad olio per motori.
L’orrendo miscuglio e le percosse ricevute lo gettarono nel baratro della morte, la quale non sopraggiunse nell’immediato, bensì dopo un mese di agonia.
Pochi giorni prima che spirasse, però, i suoi allievi si ritrovarono sotto la finestra della stanza dell’Ospedale Centrale di Gorizia in cui si trovava, al fine di intonare i canti nella lingua proibita: lo sloveno. Una specie di “Flashmob” ante-litteram. Volevano far avvertire la loro vicinanza all’insegnante moribondo e lo fecero rischiando di pagare un prezzo altissimo: la vita.
Cantarono il loro addio con le lacrime agli occhi rivolti alla finestra dietro la quale il maestro stava abbandonando le spoglie mortali.
<< E’ lei Luigi Bertossi? >>
<< Ne, jaz sem Lojze Bratuž >> (“No, io sono Lojze Bratuž”), martire sloveno della vigliacca prepotenza fascista.
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