Alla ricerca dell'identità culinaria del Forlivese e della Romagna. Seconda parte
Per avere la farina da impastare il pane era prima necessario seminare il grano, aspettare che crescesse (tutte fasi precedute da aspetti propiziatori) per poi raccoglierlo. La mietitura in genere iniziava il giorno precedente la ricorrenza di S. Giovanni e poteva protrarsi, a seconda delle zone e del tipo di grano, per molti giorni.
Uomini, donne, anziani e bambini partecipavano a questo “rito collettivo”, uno dei più importanti dell’anno dal punto di vista agricolo. Si recavano nei campi con “e’ sghet” (la falce) in mano fin dal primo mattino. Le spighe raccolte venivano di volta in volta raggruppate in mazzetti legati ben saldi da più spighe arrotolate e riunite poi in covoni, i quali venivano portati sull’aia di casa e ammucchiati sapientemente tra loro per formare il barco. La fase della raccolta del grano si chiudeva con l’arrivo delle macchine per batterlo: un giorno di festa per l’intera famiglia e per gli altri contadini che prestavano “agl’öpri”, in un rapporto di scambio reciproco, durante il quale “l’azdora”, la reggitrice, la donna di casa preparava un corposo pranzo per tutti coloro che “andavano dietro la macchina da battere il grano”.
La cucina: il luogo dell’intimità
“L’aròla” era solitamente bassa per consentire di riscaldare tutto il corpo di una persona. Sul piano stavano gli alari, o cavdôn. Sopra, legato alla catena il paiolo di rame, con acqua calda o bollente che serviva per cucinare, lavare, ecc. L’arola era anche affollata da una serie interminabile di accessori per cucinare e preparare gli alimenti: cavalletti da fuoco per stivare la legna, treppiede per sostenere i recipienti, attizzatoio, molle, soffioni, la ventola di penne, il testo per la piadina, lo spiedo a mano, grigliette per le braci ardenti da utilizzare per collocare recipienti per far bollire alimenti che richiedevano una lunga cottura.
Il pancotto
Evidenziando il ruolo che il focolare ha avuto nella famiglia contadina fino a una cinquantina di anni orsono mi è tornato alla mente che era sopra a quella fiamma che mia madre, o in sua assenza, la nonna, preparava negli anni sessanta del secolo scorso, fra le altre povere cose, un pancotto di un gusto mai più provato. Una minestra questa forse ormai dimenticata, però estremamente rappresentativa della Romagna popolare. La ricetta riportata nel prezioso volume “Mangiari di Romagna” di Gianni Quandamatteo, Luigi Pasquini, Marcella Caminati (Pazzini Editore 1999), è la seguente: “Tozzi di pane, avanzi non di giorni ma di settimane. Metterli a bagno nell’acqua sino a ridurli in poltiglia. Aggiungere altr’acqua e, in un capace tegame di terracotta, cuocerli con spicchi d’aglio e poco sale. Far bollire molto, in modo che, sotto, facciano la ‘crosta’ (buona questa!). Condire con polta d’oliva, cioè olio grasso, senza correttivi, o anche col burro. Cospargere di parmigiano”.
Oggi è un mangiare probabilmente perduto, salvo rari casi, anche se la ricchezza e la qualità delle attuali materie prime a nostra disposizione ne farebbe davvero una ricetta importante ed eccellente. Era il mangiare dei poveri, dei bambini da svezzare, dei vecchi ormai sdentati, degli ammalati, delle puerpere. Il pancotto, da non confondere con la “panata”, la quale, diversamente dal pane cotto in acqua, è cotta nel brodo con aggiunta di uovo e di odori, ha alla base la consuetudine dei romagnoli di non buttare via il pane avanzato ed ormai duro per le ragioni sopraindicate, ma di riciclarlo facendone una minestra buona per tutti. “Consumato soprattutto durante il periodo di Quaresima, scrive Libero Ercolani, e al sabato Santo si rompeva “e’ pignat”, il pentolino di coccio usato per cuocerlo, per indicare la fine della Quaresima”.
Simbologia del rito
Nel tracciare un resoconto dei “mangiari di Romagna” si fa sempre ampio riferimento all’abbinamento cibo-festività, “intenso come simbologia del rito e richiamo all’origine: l’offerta agli dei o ai morti, oppure il rinnovarsi della primavera, o al trionfo dell’estate”. Uno dei piatti romagnoli che maggiormente esemplificano questo concetto è quello dei cappelletti, di cui si parlerà nella terza parte di questo viaggio nell’arte culinaria del forlivese e della Romagna.
Gabriele Zelli
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