Fu fucilato a Pievequinta il 26 luglio 1944
Prossimamente sarà pubblicato un libro che ripercorrerà le vicende dell’eccidio di Pievequinta, perpetrato dai nazifascisti il 26 luglio 1944. In attesa di leggere questo nuovo contributo sul tragico avvenimento, che ho avuto modo di trattare in più occasioni insieme a Marco Viroli, compreso nel volume “I giorni che sconvolsero Forlì. 8 settembre 1943 – 10 dicembre 1944”, edito dalla Società Editrice “Il Ponte Vecchio” nel 2014. In questa sede intendo riportare all’attenzione la figura di Biagio Molina (Tropea 21 aprile 1907 – Forlì 26 luglio 1944) e della moglie Rossana Benda (14 maggio 1914 – 27 dicembre 1944), accumunati da un tremendo destino.
Il fotoreporter Salvatore Libertino, titolare della testata “Tropeaedintorni.it”, in un articolo dal titolo “Biagio Molina, martire della Resistenza”, ha ripercorso le vicissitudini dei due e dei loro familiari a partire dalla fase di repressione messa in atto nel 1944 dall’esercito tedesco di occupazione, in collaborazione con i fascisti italiani, contro le formazioni partigiane, sia quelle organizzate sia quelle spontanee, e la popolazione civile. Come avvenne a Pievequinta dopo che nel pomeriggio del 25 luglio un caporale maggiore tedesco, inciampato in un filo di ferro che era stato teso attraverso la Cervese, fu ucciso con un colpo di pistola alla tempia. Le autorità nazifasciste decisero per contromisura di ricorrere alla decimazione prelevando dal carcere di Forlì 10 ostaggi da destinare alla fucilazione nello stesso luogo dell’attentato. All’imbrunire del giorno dopo, puntualmente, dieci uomini furono condotti in autofurgone sino a Carpinello, fatti poi proseguire a piedi in fila per due fino al punto esatto dell’uccisione del caporale, dove furono fucilati.
Questi i loro nomi: Francesco Babini di Angelo, nato a Verghereto, parroco di Donicilio di anni 27;
Riziero Bartolini di Giuseppe, nato a S. Pietro in Bagno, residente Verghereto, colono, di anni 18 (a Babini e a Bartolini nel 2006 è stata concessa la Medaglia d’oro al merito civile alla memoria);
Alfredo Cavina di Raffaele, nato a Riolo Bagni, residente in Casal Fiumanese, suonatore orchestrale di anni 41; Antonio Lucchini di Egidio, nato a Sauris (Udine), minatore di anni 40; Biagio Molina di Vincenzo, nato a Tropea, residente a Bologna, industriale chimico di anni 37; William Pallanti, nato a Londra, residente a Bibbiena, di 40 anni; Edgardo Ridolfi di Tullo, detto Lignon, nato a Campiano (Ravenna), residente a Forlì, industriale di anni 40; Mario Romeo di Raffaele, nato a Napoli, sfollato in Verghereto, meccanico di anni 32 (di Mario Romeo pubblicai qualche hanno fa l’inedito testamento morale indirizzato al figlio piccolo); Antonio Zoli di Gaspare, detto Fiscì, nato a S. Martino in Strada, falegname di anni 29 (commissario politico dell’Ottava Brigata Garibaldi, Medaglia d’argento al valore militare alla memoria); Luigi Zoli di Giuseppe, nato a Cotignola, ortolano di anni 29.
Nel suo scritto Salvatore Libertino ricorda che a due chilometri dal luogo dell’eccidio Antonio Zoli saltò dall’autocarro, ma fu subito ripreso perché ferito da una scarica di mitra; un altro tentativo di fuga lo tentò invano sul posto dell’esecuzione, mentre il “maresciallo G. delle SS italiane, dopo la raffica che abbatteva quei disgraziati, scaricava sullo stesso Zoli e sugli altri non ancora morti la pistola”.
Porta la data del 28 luglio 1944 il resoconto dell’eccidio firmato dal Comandante di Piazza di Forlì che recita: “Nella notte del 26 luglio, un caporale maggiore tedesco venne proditoriamente assassinato a circa Km 1,5 est di Carpinello di Forlì. Egli fu fatto cadere con un filo di ferro teso attraverso la strada ed ucciso con un colpo di pistola nella tempia. Per contromisura il 26 luglio vennero fucilati dieci partigiani e comunisti sul luogo dell’assassinio.
In considerazione di questo delitto e di atti di sabotaggio sulle linee telefoniche tese al nord della città di Forlì, venne ordinato il fermo di un certo numero di ostaggi contro i quali, nella eventualità del ripetersi di atti di sabotaggio verrebbero prese misure di rappresaglia. La popolazione viene nuovamente richiamata nel proprio interesse, a codiuvare affinchè non abbiano a ripetersi atti contro le forze germaniche. Sulle eventuali denunzie verrà tenuto il medesimo riserbo. Inoltre, presi accordi col capo della provincia, si dispone che nella zona nord-est della linea ferroviaria Faenza-Forlimpopoli e precisamente delineata dalla strada Villanova-Villafranca e seguente il confine provincia di Ravenna e dell’ex circondario di Forlì in direzione di Cesena il coprifuoco abbia inizio alle ore 20, per la durata di quindici giorni dalla data della presente ordinanza”.
È invece del 7 agosto successivo la diffusione clandestina di un documento a firma dei Comitati di Difesa della Donna e del Fronte della Gioventù che sotto la frase “Guerra a morte ai banditi” si rivolge al “Popolo di Romagna” con queste parole: “La già lunga lista dei nostri caduti si allunga, diviene interminabile. La belva hitleriana non è ancor sazia del sangue generoso dei nostri figli. Dopo i dieci fucilati di Forlì (si fa riferimento alla fucilazione in via Seganti di dieci giovani rastrellati a Piangipane e fucilati per rappresaglia dopo un atto di sabotaggio sulla linea ferroviaria ndr), altri dieci Patriotti, prelevati dal carcere ove erano stati rinchiusi dai traditori fascisti, sono stati massacrati la sera del 26 luglio sulla pubblica via a Pievequinta: Cavina Alfredo da Riolo Bagni, Bartolini Riziero da Verghereto, Babini Don Francesco, Arciprete di Verghereto, Romeo Mario da Verghereto, Lucchini Antonio da Lauris (Udine), Molina Biagio da Bologna, Zoli Antonio da S. Martino in Strada (Forlì); Ridolfi Edgardo da Forlì ed altri due che non ci è ancora stato possibile conoscere i nomi.
Il tiranno tedesco rifiuta persino di far conoscere i nomi degli assassinati.
Cittadini! Questo nuovo mostruoso delitto compiuto con inaudita ferocia dagli invasori del nostro suolo, col consenso dei traditori fascisti, non deve lasciare indifferente nessun uomo, nessuna donna, giovani e vecchi e di qualsiasi ceto sociale, purchè in petto palpiti un cuore italiano.
Il tiranno vuole terrorizzarci col massacro in massa di nostri migliori figli. Dobbiamo rispondergli con raddoppiata violenza per vendicare i nostri martiri, per costringerlo a lasciare il nostro suolo e intanarlo nella sua tana, ove sarà inesorabilmente schiacciato.
Operai, contadini, impiegati e intellettuali, uomini e donne, Cittadini!
Di fronte all’attuale tragedia, coloro che predicano la passività, ‘l’attesa’ degli alleati, sono dei vili ma non italiani, gli italiani si battono e muoiono, al grido di viva la libertà, così, come son caduti i nostri dieci fratelli a Pievequinta.
Lottando con tutti i mezzi e sempre più numerosi contro la belva tedesca, noi accorceremo il periodo delle nostre sofferenze; conquisteremo più presto la pace e la libertà.
Nessun popolo può conquistarsi la sua indipendenza con le forze dall’esterno, ma soltanto con lo sforzo eroico dei suoi figli. Ecco perché oggi di fronte al nemico che ci umilia e ci calpesta noi dobbiamo scattare come un sol uomo nella lotta a morte contro l’odioso straniero prussiano.
Avanti con le armi, nell’insurrezione popolare: Per vendicare i nostri caduti, per liberare la nostra Patria”.
La famiglia di Biagio Molina
I componenti della famiglia Molina dopo diversi spostamenti per ragioni di lavoro (Biagio era medico e industriale chimico), in diverse località, si fermarono a Bologna, la città della moglie Rossana Benda. Biagio e Rossana si erano sposati nel 1930 a Foligno, dove il 15 aprile 1931 nacque il figlio Giorgio, mentre la figlia Rita venne alla luce a Roma il 2 giugno 1938.
Nella primavera del 1944, in pieno periodo bellico, per gli abitanti di Bologna, così come della stragrande maggioranza dei paesi e delle città, la situazione incominciò ad essere insostenibile, i massicci e continui bombardamenti spinsero sempre più la popolazione a sfollare. Anche la famiglia Molina, terrorizzata, decise di allontanarsi dalla città durante il furioso bombardamento del 15 maggio e trovò rifugio in un casolare sulle colline di Riolo Bagni, che in quella fase era un importante centro di raccolta e smistamento dell’attività partigiana locale.
Biagio si diede subito da fare collaborando ed aiutando con animo, forza e competenza la formazione partigiana Brigata Garibaldi “Irma Bandiera”, divenendone il capo di stato maggiore (altre fonti citano una collaborazione di Molina con la VII GAP di Imola, comandata da Franco Franchini, detto “Romagna”), sino a che un traditore denunciò alla milizia nazifascista le attività di contrasto che venivano svolte e i nomi degli artefici. “La notte del 14 luglio”, racconta Libertino, “i tedeschi piombarono su un casolare per perquisirlo e non trovando nessuno dei responsabili chiesero chi fossero i familiari di Biagio Molina. Rossana si fece avanti dicendo che era moglie e unica parente. L’arrestarono ma i figli Rita di sei anni e Giorgio di dodici scoppiando in un pianto dirotto si spinsero nelle braccia della madre. La stessa notte, insieme, furono caricati su un camion e portati al carcere di Forlì. Dopo qualche giorno, il 19 luglio, fu preso Biagio, condotto anche lui nello stesso carcere, dove furono tutti interrogati e picchiati. Il figlio fu percosso con un nerbo di cuoio, e per farlo parlare gli infilarono spilli sotto le unghie. Giorgio, all’età di 12 anni, veniva considerato a pieno titolo prigioniero politico per aver collaborato nelle azioni partigiane. La sera del 25 luglio fu accompagnato in infermeria perché aveva bisogno di essere medicato: era una maschera per le sferzate ricevute e anche per le cimici che pullulavano dentro il pagliericcio. Fu la solidarietà di un infermiere, un certo Fiumara di Forlì, che lo fece salvare escludendolo dalla lista dei dieci prigionieri politici, tra i quali il padre Biagio, destinati alla fucilazione per rappresaglia in seguito all’uccisione in Pievequinta di Forlì del caporale maggiore tedesco avvenuta nel pomeriggio”.
La mattina del 26 luglio i familiari di Biagio Molina furono rilasciati. Suor Pierina Silvetti, che assisteva i carcerati insieme ad altre due consorelle dell’ordine delle “Ancelle del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante”, li accompagnò fino alla periferia della città da dove intrapresero un viaggio di due giorni e due notti per ricongiungersi con la madre di Rossana che li portò presso dei parenti a Zola Pedrosa (Bo). Tutto ciò avveniva mentre Biagio Molina veniva prelevato dallo stesso carcere per essere portato a Pievequinta dove venne ucciso.
“Per i superstiti Molina i mesi passarono tristemente e nell’impossibilità di conoscere la reale situazione”, prosegue il racconto di Salvatore Libertino, “fino a quando, il 27 dicembre, durante un bombardamento a tappeto una bomba centrò l’edificio dove alloggiavano Rossana con sua madre, Giorgio e Rita. La casa crollò su se stessa. Dopo ore di attesa, qualcuno tirò per un braccio Giorgio vivo, mentre Rossana e Rita perirono sul colpo. La nonna di Giorgio, ferita in una gamba, fu portata in un ospedale da campo tedesco. I cadaveri furono dissepolti dalle macerie dopo almeno due giorni di scavi. Giorgio da solo s’incamminò per Bologna, dichiarata ‘Città aperta’, e visse della carità del prossimo e con la raccolta dei bossoli di cui il rame era una fonte di guadagno. Riuscì a vedere in assoluta anteprima l’arrivo dei liberatori della città la mattina all’alba del 21 aprile 1945, a Porta Mazzini, già in piedi con il suo carriolo”.
A distanza di 58 anni Giorgio Molina fu invitato a raccontare la sua esperienza di vita alla trasmissione televisiva “La mia guerra, il conflitto visto dalla gente”. Nel 1990 fu ospite a Roma della conduttrice Enza Sampò che dirigeva e organizzava la trasmissione. Ma decise di non partecipare quando gli dissero quello che poteva dire e quello che non doveva dire.
A Pievequinta una stele ricorda la tremenda fucilazione per decimazione ad opera dei nazifascisti. L’epigrafe recita “Qui il 26 luglio 1944 al disopra delle bandiere delle razze, delle fedi, affratellati nella morte caddero perché la libertà patrimonio degli uomini e dei popoli illuminasse il volto rinnovato della Patria.”. A seguire i nomi dei dieci Martiri della Resistenza (il tutto è purtroppo illeggibile o quasi per mancanza di manutenzione in quanto la scritta fu fatta restaurare, insieme a tutto il monumento, oltre trent’anni fa da chi scrive).
Gabriele Zelli
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