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Le automobiline di Jacopo

Jacopo Rinaldini si racconta nel suo Diario degli amici

CESENA. Un intervento autobiografico. Questa volta Jacopo Rinaldini ha scelto di parlare di se stesso e di quelle automobiline che hanno sempre fatto parte di lui. Inoltre conclude con una poesia, arte alla quale ha iniziato a dedicarsi. Un pezzo nel quale emergono tutte le sfacettature dell’uomo: politico, viaggiatore, pittore, padre e ora poeta.

Ho fatto conoscere diversi artisti e artiste attraverso queste colonne a cui sono così affezionato. L’ho fatto nel pieno della libertà che mi è sempre stata concessa e proprio per questo so che a Davide Buratti devo moltissimo: non mi ha mai imposto alcun vincolo e mai sarò in grado di ripagare questa preziosa fiducia, che ha un valore inestimabile. 

Oggi, tuttavia, quasi in un atto di imperio, ho deciso di raccontare me stesso: quadri, poesie e racconti che compongono un mosaico che ho chiamato “Diario degli Amici”. Una sorta di dialogo con il bambino che cammina accanto a me e che non è mai stato inghiottito da una società piena di nevrosi, la quale ha fatto dell’ “azione massificatrice” una costante che mi terrorizza più della morte stessa. 

Dietro la porta, una stanza invasa dalla sabbia dorata del deserto che pesa nelle mie tasche; talvolta, infilo la mano e getto manciate di questa polvere d’oro lungo le vie e i quartieri della città che m’ha accolto: Cesena. 

In questo istante, scorgo antiche conoscenze sulla soglia della stanza in cui è conservato questo “mondo altro” in cui è unicamente l’immaginazione a segnare la misura della grandezza: io sono sia la sabbia sia le oasi attraversate dai binari su cui avanza la “Freccia Azzurra”, vecchia amica, che, nonostante gli anni, è tuttora il francobollo incollato sulla busta ove è contenuta l’infanzia di chi scrive.

Quanti amici, ora, si fanno avanti. Li conosco da quando sono al mondo: sono modellini, macchinine in grado di diventare navicelle con cui poter esplorare le viscere della terra e i fondali marini. 

Di fatto, ecco le cronache degli anni in cui è sbocciato il fiore della felicità: la fanciullezza caratterizzata dall’assenza di schemi e pesanti paure. 

Il ricordo di quella spensieratezza mi ha spinto a ripercorrere, attraverso tele, racconti e poesie, un itinerario lungo i lidi dell’età opposta a quella adulta per tentare di trasformare ciò che osservo: creare la luce laddove s’annida il buio.

Non già la politica può mutare gli squilibri perfetti dell’ingiustizia quanto l’approcciarsi al mondo con lo spirito degli indifesi e con l’empatia di chi ama senza condizioni. I bambini, appunto.

Giocattolo come strumento per donare sollievo e alleggerire il fardello che pesa sulla schiena.

Una macchinina può essere il simbolo di una rivoluzione perenne, poiché è fuori dagli schemi e rompe con la razionalità asfissiante. 

A bordo dei miei piccoli bolidi mi allontano da ciò che governa l’oggi. 

Il “Diario degli Amici” altro non è che la cronaca di una fuga bagnata da lacrime di gioia e nostalgia; è un pugno metafisico che non colpisce con la forza della violenza, ma con l’immagine. Una sorta di manifesto in cui è impresso a chiare lettere il diritto ad essere differenti, il diritto di giocare con il creato, amandolo. In una società che fatto del consumismo una forma di paganesimo, della violenza una risposta accettata, della sopraffazione la regola, della mancanza di diritti una condizione comune, identificarsi con i bambini significa cercare rifugio da un perenne stato di guerra.

Il “Diario degli Amici” è il terrazzo da cui vedo sorgere il sole: compagni di viaggio sono i pennelli e la penna Bic, nera, che alza la testa all’interno del taschino della mia camicia bianca. 

Raccontare e raccontarsi senza avere timore di non essere compresi e accettati, perché brandendo una macchinina si può fare politica e narrare storie ambientate nei quartieri popolari, si può dipingere un quadro in cui la tematica principale è la ridistribuzione della ricchezza, si può parlare all’uomo o alla donna che vorranno perdere qualche minuto della loro vita per capire che cosa, in fondo, sia questo “Diario degli Amici”; probabilmente, è una dichiarazione d’amore nei confronti dell’immaginazione, poiché là è il regno della giustizia e della pace.

Automobiline 

Giardino di via Ugo la Malfa

Dal lavoro, 

dagli scorni, 

dagli impegni vuoti, 

dall’abbruttimento

conseguente ad una azione che si ripete senza posa e pensiero, 

la bella fuga a guisa d’una vecchia “Mille Miglia”.

Tra ciuffi d’erbacce

il massacro 

delle automobiline

dentro ad una nuvola nera:

il viso coperto di benzina e catrame,

il maglione bucato sulla pancia,

le toppe sui gomiti

e la voglia di dare di piglio ai giri del motore che non c’è.

Dietro la pianta d’alloro

mi riparo,

sapendo che mai

la mia mamma mi troverà;

urla, minaccia, mi chiama. 

Voglio giocare, ché sento il fulmine

della beatitudine

a cui lego il futuro, i ricordi, 

la memoria. 

Scavo, 

sollevo quel po’ di terra 

necessaria a macchiare il sorriso:

mi cercano tutti.

Vengano pure a correre,

se vogliono, 

tra le radici

d’un cespuglio

tramutato in verde autodromo.

Diversamente, 

allora,

sarò io, alla fine della corsa,

alla fine della vita,

a cercare il riflesso

dei vostri volti e delle vostre mani

sulla vetrina del negozio di giocattoli

lungo il corso del paese. 

Ora, lasciatemi stare 

nel giardino di questa casa

persa per sempre;

lasciate che termini l’avventura iniziata.

Tra le punte delle dita, 

quasi imprigionata dal terminare delle unghie, 

c’è la luna, 

piccolissima:

non vedi,

mamma, 

quanto è bella?

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