Se ne parla poco, ma è il vero pericolo. E rischia di diventare una mazzata
CESENA. Fino a qualche tempo era un termine del tutto sconosciuto al grande pubblico. Adesso di stagflazione si parla con una frequenza sempre maggiore. E’ il rischio principale che corriamo a causa della guerra in Ucraina. Si tratta di una fase dell’economia in cui sono presenti in contemporanea ondate inflazionistiche e stagnazione economica, ovvero la mancata crescita del prodotto interno lordo. L’ultima volta che questo diabolico mix ha inciso in maniera pesante è stato nel corso degli anni Settanta negli Usa. Era il periodo in cui il prezzo del petrolio cresceva in continuazione facendo schizzare in alto i costi dei beni e, di converso, provocando un aumento della disoccupazione. Allora gli States ne uscirono abbassando i tassi. Però molti economisti dubitano che in questa occasione quella possa essere la strada giusta.
Questo perché ritengono che l’aumento dell’inflazione, soprattutto in Europa, sia provocato dai blocchi nelle forniture e dalla speculazione. Come nel caso dei prodotti petroliferi. Al contrario, è ritenuto più utile un nuovo intervento dei singoli stati per favorire i consumi battendo due strade. Innanzitutto tenere sotto controllo il costo delle bollette con interventi in favore di imprese e famiglie. Poi riducendo la pressione fiscale. L’obiettivo è la crescita economica che renderebbe possibile una ripresa dell’occupazione. Nel contempo alle Banche Centrali spetta il compito di equilibrare la liquidità immessa nel sistema.
Però, bisogna essere chiari, questo non potrà avvenire senza aumentare i deficit degli stati perché la quota da coprire è così importante che non può essere tamponata con dei tagli che poi, spesso, finiscono col colpire i servizi. Tutto questo però dovrà passare da un accordo europeo. L’ideale sarebbe un tetto al prezzo del gas, ma se non ci si dovesse arrivare (come è possibile) bisognerebbe evitare il dibattito sull’austerità. In un momento come questo serve restare nell’ambito dell’elasticità. Il problema però è sempre lo stesso: la rigidità soprattutto dei paesi del nord che faticano a rinunciare al ruolo di falchi.
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