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Lettera aperta a Giovannino Guareschi

Scritta a cuore aperto

di Jacopo Rinaldini

Caro Giovannino, i grandi son sempre soli. Qualche giorno addietro ho ripreso in mano il tuo “Diario clandestino” e, per un attimo, un attimo soltanto, ho avuto chiara l’impressione, quasi una certezza, che qualche riga fosse stata scritta per me. In fondo, a ben pensarci, ho il mio Giovannino, il mio Guareschi personale, unico e ne sono pure geloso: purtroppo, non ci siamo mai stretti la mano, ma ci siamo conosciuti eccome! C’è mancato il contatto, eppure ti vedo chiaramente dinanzi a me con le gambe ben piantate a terra, due grossi tronchi della bassa, le braccia sui fianchi, il cipiglio scontroso, pronto a mollare il cosiddetto ceffone, se necessario.

Vedi, caro Giovannino, ti scrivo una lettera che non ti giungerà mai, perché in questo momento di desolazione sei un rifugio, un riparo. Il tempo passa e mi accorgo che manca una “voce contro”, onesta intellettualmente; la cerco e non la trovo e più la cerco più mi imbatto in ciarpame. Sì, è vero: c’è il passato costantemente pronto a offrire ombre silenti e sfumature del tempo scivolato via, però sono uomini e parole fermi, cristallizzati nella naftalina.

E’ l’oggi ad essere un poco misero e diafano. I migliori si contano sulle dita di una mano e sono stati messi al bando, affinché la loro voce diventasse una eco lontana a cui dare poco peso. E allora, caro Giovannino mio, una domanda mi sorge spontanea: di sete di libertà, di manifestazioni di onestà intellettuale, si può morire? Tu, alla fine, hai scelto la strada del carcere e certamente non per vendere delle copie, visto che quella scelta, che ti fa onore, l’hai pagata a caro prezzo.

La risposta alla mia domanda è scritta nel prezzo che hai dovuto pagare. Lo capisco. Sì, si muore lentamente. E pensare che c’è ancora qualche fesso che ti dà del fascista, che fesso! Immagino che tu stia sorridendo sotto quei folti mustacchi. Eri libero e la tua parrocchia non era né rossa né bianca né tantomeno nera. La tua parrocchia era la tua coscienza. Eri libero di menar colpi ora contro questi ora contro quelli; rimboccandoti le maniche della camicia ti battevi furiosamente, ma non hai mai messo da parte l’elemento che più caratterizza l’intelligenza: l’ironia.

E chi non capiva il tuo essere ironicamente contro, beh… Povero lui. Povero lui, perché era escluso, non coglieva che l’elemento fondante di ogni tuo tratto di pena era uno soltanto: l’uomo. Era sul piano umano che cercavi un contatto ed eri nemico del fanatismo. Talvolta, però, è bene mollare il colpo e riderci su: magari, il tempo limerà le sbarre di chi si è rinchiuso dentro le gabbie della faziosità militante. Man mano che si prosegue nella lettura dei tuoi scritti, si ha l’impressione di trovarsi in una camera degli specchi: l’immagine è la nostra, la mia, ma è composta dai tuoi personaggi. Un mosaico atipico, falotico, che non permette di nascondere nulla. Uno è obbligato è riflettere, leggendoti.

La mia lettera volge al termine; avrei voluto scrivere molte più cose, ma so che non ce n’è bisogno: sai già tutto, tu. Carissimo amico mio, ti saluterò immaginandoti mentre leggi queste poche righe tratte dal “Mondo piccolo”: “[…]Ebbene, qui occorre spiegarsi: se i preti si sentono offesi per via di don Camillo, padronissimi di rompermi un candelotto in testa; se i comunisti si sentono offesi per via di Peppone, padronissimi di rompermi una stanga sulla schiena. Ma se qualcun altro si sente offeso per via dei discorsi del Cristo, niente da fare; perché chi parla nelle mie storie, non è il Cristo, ma il mio Cristo: cioè la voce della mia coscienza. Roba mia personale, affari interni miei. Quindi: ognuno per sé e Dio per tutti”. E a ognuno il suo Giovannino. Con affetto e stima imperitura.

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