L'iniziativa in programma a San Martino in Strada nell'ambito della festa del PD
Venerdì 21 luglio 2023, alle ore 19.30, nel contesto della Festa del PD in corso di svolgimento nell’area del Polisportivo “Giorgio Casadei” di San Martino in Strada (accessi da via Braschi e da via Monda 3), Forlì, verrà presentato il libro “La Cavalla del Conte. Una storia dolorosa racchiusa in una cassettina” di Emanuela e Morena Piazza (edizioni Grafikamente). All’evento, insieme alle autrici, interverrà Gabriele Zelli, autore di una delle prefazioni del volume, che si riporta di seguito.
Le vicende narrate nel libro partono da un lieto evento: la recente nascita di una nipotina di una delle due autrici. È stata questa la molla che ha fatto scattare in Emanuela e Morena Piazza il nastro della memoria che si è dipanato con l’aiuto dei parenti e di ricerche d’archivio. Per fare da contraltare all’ultima nata le autrici partono dal capostipite dei Piazza, cioè Giovanni, classe 1888, venuto al mondo nella casa di un podere della parrocchia di San Giovanni di Castrocaro Terme e Terra del Sole. Quindi, come per la stragrande maggioranza delle nostre famiglie, anche i Piazza lavoravano in campagna spesso coltivando fondi avari di raccolti, dove tutti erano costretti a un vita di grandi sacrifici. Le famiglie dei nostri antenati erano come ancorate in modo indissolubile alla vita del podere che avevano il compito di lavorare. In un”epoca in cui solo il capofamiglia, il reggitore, si recava in paese o in città nei giorni di mercato ed eccezionalmente in quelli di festa, come d’altronde spesso era stabilito nei patti che disciplinavano il lavoro a mezzadria di un terreno. Mentre per gli altri congiunti i soli momenti di socializzazione erano quelli domenicali della partecipazione alla messa, quelli dei trebbi serali, comunque non graditi da propietari terrieri e dalla chiesa, perché quando le persone stanno insieme inevitabilmente si finisce per parlare della propria condizione di vita e altrettanto inevitabilmente si mette in moto un processo di rivendicazioni in forma singola o collettiva. Altri momenti collettivi erano quelli durante i quali con i vicini di casa ci si scambiava un reciproco aiuto nei momenti più faticosi dell’attività agricola; come le raccolte e le successive lavorazioni del grano, della canapa, del foraggio, delle barbabietole, dell’uva, o della spannocchiatura del granoturco.
La Grande Guerra
Poi questo mondo arcaico, che era rimasto immutabile per secoli, fu scombussolato dalla Prima Guerra mondiale alla quale la gran parte delle nostre famiglie partecipò direttamente, seppure si combattesse molto lontano, con l’arruolamento nell’esercito e l’invio al fronte di uno o più giovani. È sufficiente andare nelle piazze dei nostri paesi o nei luoghi dove sono collocate le lapidi che riportano i nomi dei caduti per rendersi conto dell’alto sacrificio di vite umane che comportò la Grande Guerra e che un’intera generazione fu quasi decimata. E fra coloro che erano scampati alla feroce battaglia combattuta nelle trincee, si abbatté per le pessime condizioni igieniche e sanitarie che avevano vissuto, la diffusione della pandemia detta “la spagnola”, che fece più vittime del conflitto. Mentre moltissimi altri ritornarono a casa con menomazioni perenni su parti del corpo. Anche Giovanni Piazza, da cui prende le mosse il racconto contenuto in questa pubblicazione, nonostante sia sposato e abbia ben quattro figli, è chiamato a combattere nell’11° Fanteria della Brigata Casale di Forlì. I componenti di questo reggimento furono denominati i “Gialli del Calvario” per via delle mostrine gialle che portavano. Nel marzo del 1915 l’11° lasciò la Caserma “Caterina Sforza” di Forlì, in via Romanello, per dislocarsi in zona di guerra. Durante la Battaglia dell’Isonzo la formazione fu operativa sul Monte Calvario (conosciuto anche col toponimo sloveno di Podgora), una collina a ovest di Gorizia, sulla sponda del fiume. Nonostante la modesta altezza (241 metri sul livello del mare) questa montagnola fu baluardo della testa di ponte austro-ungarica a difesa di Gorizia. La conquista fu tentata più volte dalle truppe italiane senza successo e con notevolissime perdite e feriti, fino alla presa che avvenne al termine di un’aspra battaglia il 19 luglio 1915.
Giovanni Piazza nel luglio del 1916 fu colpito da una bomba a mano al braccio sinistro che gli fu amputato. Ritornò a casa menomato nel corpo, forse anche nello spirito, ma reagì con tutte le sue forze perché aveva la grande responsabilità di sostenere una famiglia numerosa e come raccontano Emanuela e Morena lo farà con una tempra d’animo straordinaria.
Dopo la guerra del 1915-1918 e gli avvenimenti degli anni successivi che portano alla presa del potere da parte di Benito Mussolini e l’instaurazione di una ventennale dittatura, si cominciò ad assistere a una trasformazione della vita dei Piazza. Da questo punto in poi nel racconto di Emanuela e Morena Piazza emerge un vissuto individuale e collettivo ricco di sfaccettature, dove l’autobiografia si incrocia con l’autorappresentazione, la tradizione orale con la cultura scritta, l’esperienza individuale con elementi di identità sociale e collettiva più o meno forte.
Ed è proprio questo aspetto del libro che vorrei sottolineare perché le testimonianze, le storie di vita sono documenti essenziali per cogliere intrecci tra l’esperienza individuale e i contesti ideologici e culturali in cui questa si esplica, nonché il peso che i due elementi hanno nella costituzione dell’identità. Mettere a nudo le dinamiche di assimilazione a modelli culturali precisi, così come l’allontanamento da essi e la loro dispersione offre l’opportunità di ricostruire dei reali processi sociali e culturali. Emerge la presenza di un insieme di valori condivisi da tutti i protagonisti di questa pubblicazione, valori che si riassumono nella competenza e serietà sul lavoro, nell’onestà, nella solidarietà e nell’impegno, più o meno accentuato, alla vita politica. In linea di massima la solidarietà è il valore più comunemente condiviso, soprattutto per il largo consenso e influenza che aveva avuto il mondo della prima cooperazione in tutti gli strati sociali del nostro territorio; anche se non si era socio di una cooperativa ne venivano però frequentati gli ambienti, come le case del popolo o le organizzazioni dell’approvvigionamento e del consumo. Sentimenti che vennero tarpati dal regime fascista e dalle sue imposizioni individuali e collettive, ma capaci di riemergere con prepotenza dopo l’8 settembre 1943.
La Seconda Guerra mondiale e la Resistenza
Nella settimane successive la nostra terra e le nostre popolazioni conobbero la faccia più feroce e virulenta della guerra di occupazione da parte dell’Esercito tedesco che venne affiancato dagli appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, fatta di bombardamenti, di eccidi, di rappresaglie, di ritorsioni. Ogni bomba che veniva sganciata dai bombardieri o lanciata da un cannone era sinonimo di vittime (purtroppo tanti, troppi civili), di distruzioni, di morti, di paure, di sogni spezzati, di lacerazioni dell’animo. Tanto più che nel nostro territorio, che si trovò coinvolto nell’intera battaglia della Linea Gotica (una fascia di terreno di ben 320 chilometri dall’Adriatico al Tirreno), secondo alcuni studi lasciò sul campo decine di migliaia di morti, di feriti e di dispersi, in uno scontro durato diversi mesi. In questo contesto si combatté la Battaglia di Forlì, anch’essa aspra e crudele con innumerevoli perdite da ambo le parti, e con il fronte che poi si fermò a lungo sul vicino fiume Senio fino allo sfondamento finale delle Forze alleate dopo la Battaglia dei tre fiumi (o Battaglia del Senio). La Linea Gotica segnò profondamente le terre e gli abitanti della Provincia di Pesaro-Urbino, della Romagna, dell’Emilia e della Toscana. Fu in quella fase che molti giovani, di ogni estrazione sociale e con connotazioni politiche diverse, decisero di unirsi e di dare il proprio contributo alle formazioni partigiane che si costituirono e operarono sull’Appennino. Anche per questa adesione divenne più importante l’azione dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) e delle Squadre di Azione Patriottica (SAP), che agirono a vari livelli nelle città e in pianura con la partecipazione anche di un rilevante numero di donne. Fra quei giovani ne vanno ricordati tre di San Martino in Strada, come giustamente fanno anche le autrici. Proprio a partire da Antonio Piazza, figlio di Giovanni, partigiano dell’Ottava Brigata Garibaldi che, all’età di 21 anni, il 25 maggio 1944 venne ferito al capo in seguito a un conflitto a fuoco che sostenne nel podere Testa di Monte Colombo. Il giovane Piazza aveva aderito da subito alla Resistenza, con incarichi di responsabilità in un battaglione della 29ª Brigata GAP “Gastone Sozzi”. Il giovanissimo gappista operò soprattutto sui monti di Strabattenza, nell’alto Appennino. Sorpreso dalle Brigate nere mentre trasportava armi, ingaggiò con i fascisti un conflitto a fuoco, durante il quale restò gravemente ferito. I brigatisti neri lo trasportarono all’ospedale di Dovadola e, ripromettendosi di interrogarlo non appena si fosse un po’ ripreso, non si allontanarono dal suo letto. Le ultime parole del ragazzo, che morì il giorno dopo, rivolte alle suore di servizio nel nosocomio furono: “Mandate via i miei assassini!”. Come accennato, al momento della morte Antonio Piazza abitava a San Martino in Strada, frazione del Comune di Forlì che ha avuto altri due partigiani uccisi dai nazifascisti: Antonio Zoli e Pino Maroni, le cui storie vengono riportate in questo volume non solo perché accomunati dalla stessa tragica sorte di Antonio Piazza. Infatti alla fine della Seconda Guerra mondiale si volle dare ai tre una sepoltura comune e per questo fu realizzato un monumento che ancora è presente all’interno del cimitero di San Martino in Strada, recentemente restaurato su sollecitazione di Morena Piazza. Da allora i tre partigiani furono indicati come “I tre Martiri”, che per oltre cinquant’anni è stato anche il nome di una società calcistica dilettantistica della zona.
Sicuramente Antonio Piazza avrà conosciuto e frequentato gli altri due partigiani prima dell’8 settembre 1943, ma su questo non abbiamo molte notizie in merito, così come non sappiamo se nel periodo resistenziale abbiamo avuto la possibilità di avere momenti di lotta e di vita comune. Sicuramente sarà avvenuto in quanto Pino Maroni è stato commissario politico del secondo distaccamento della 29ª Brigata GAP “Gastone Sozzi”, quindi un comandante di Antonio. Mentre Antonio Zoli (detto Fis-cì), che già nel 1942 si era impegnato nella ricostruzione dell’organizzazione del Partito Comunista clandestino soprattutto nella vallata del Bidente, fu tra i costitutori a San Paolo di Cusercoli della prima formazione partigiana del forlivese, di cui divenne commissario politico a fine dicembre su indicazione del comandante Libero Riccardi.
Di Antonio Zoli mi permetto di aggiungere qualche informazione ulteriore, rispetto a quanto riportato dalle autrici, che ci fa capire l’importante ruolo ricoperto all’interno della Resistenza.
Nel mese di marzo del 1944 Zoli fu incaricato da Libero Riccardi di fare da scorta, insieme a Dario Bondi e Mario Barzanti, al generale inglese John Frederick Boyce Combe e al brigadier generale Edward Joseph Todhunter, affinché potessero superare le linee nemiche e raggiungere l’esercito inglese che stava avanzando da sud verso nord. I due alti ufficiali inglesi, che avevano passato l’inverno precedente partecipando a tutti gli aspetti della vita dei partigiani presso il comando della Brigata Romagna, furono accompagnati fino a Cassino e in seguito furono rimpatriati. Il generale Combe successivamente fu nuovamente inviato a combattere in Italia e in particolare in Romagna, dove nel novembre del 1944 ebbe l’occasione di contribuire alla liberazione di Forlì e di presiedere, a Meldola, il momento della consegna delle armi da parte dei partigiani dell’Ottava Brigata Garibaldi.
Quella missione di Antonio Zoli ebbe una duplice valenza. Per prima cosa mettere in salvo due importanti ufficiali dell’esercito inglese, alla stessa stregua di quanto era stato fatto nei mesi precedenti da Tonino Spazzoli, Torquato Nanni, Bruno Vailati e da un numeroso gruppo di antifascisti e partigiani che erano riusciti a far superare le linee nemiche ad altri importantissimi generali inglesi. Inoltre aveva anche il compito di creare un contatto e un rapporto con i comandi alleati per chiedere aiuti bellici. Secondo quanto riportato proprio da Combe e da Todhunter il comandante Libero Riccardi intendeva essere rappresentato presso il Quartier generale alleato e contemporaneamente avere contatti con la missione russa presente in Italia.
Antonio Zoli per le difficoltà incontrate durante il ritorno raggiunse la zona della Brigata Romagnola solo dopo i rastrellamenti dell’aprile del 1944 che sbandarono la formazione.
Venne preso dai nazifascisti, in seguito a delazione, pochi mesi dopo e il 26 luglio, in seguito all’uccisione di un soldato tedesco, Antonio Zoli fu fucilato per rappresaglia a Pievequinta insieme con altri nove prigionieri: don Francesco Babini, Riziero Bartolini, Alfredo Cavina detto “il Vecchio”, Antonio Luccini, Biagio Molina, William Pallanti, Edgardo Rodolfi, detto “Lignon”, Mario Romeo e Luigi Zoli.
Dopo la guerra, la Corte d’Assise straordinaria di Forlì condannò all’ergastolo Arrigo Ortolani, milite della GNR, per collaborazionismo e per aver concorso nell’uccisione di Antonio Zoli. La Cassazione annullò la sentenza e rinviò alla Corte d’Assise di Bologna che, riguardo all’uccisione di Zoli, concluse con l’assoluzione per insufficienza di prove, mentre il reato di collaborazionismo fu estinto per amnistia.
Il dopoguerra, la ricostruzione e un mondo che cambia
In prospettiva le nipotine delle due autrici, a cui è dedicato questo libro, faranno fatica a credere che noi tutti, la nostra civiltà, i traguardi sociali, il nostro relativo benessere affondano le loro radici in una realtà agricola, dalla quale deriva anche la famiglia Piazza, che meno di un secolo fa era quella che appare nelle vecchie e a volte consumate fotografie, nei musei e nelle descrizioni delle operazioni dei campi di allora, non molto diversa probabilmente da quella virgiliana delle Georgiche. L’agricoltura, infatti, era imperniata su una simbiotica alleanza fra lavoro umano e animale, in un armonico rapporto con la natura, le cui risorse erano fondamentali per conservare l’equilibrio biologico. Allora oltre il 60% della popolazione era addetta al lavoro dei campi, oggi è meno del 5-10%. Com’è stato possibile lo sviluppo di oggi? Il progresso agricolo e la “rivoluzione verde” dell’ultimo secolo hanno subito una fortissima accelerazione rispetto al passato, superando tutti i secoli precedenti messi insieme. Oggi i giovani fanno fatica a capire come sia possibile produrre le stesse derrate, gli stessi generi alimentari in assai maggior quantità, grano, mais, foraggi, facendo uso quasi unicamente di macchine e relative tecnologie, fra l’altro sempre più sofisticate, sostitutive del lavoro manuale: per lavorare il suolo, gestire i trattamenti che proteggono le piante dalle malattie, per irrigare e concimare, mietere e trebbiare contemporaneamente, vendemmiare, selezionare, conservare. Solo poche operazioni sono rimaste manuali, come, in parte, la potatura degli alberi, delle viti e, per intero, la raccolta dei frutti.
L’agricoltura, essendo fonte primaria, ma non sufficiente, della nostra alimentazione, non è più la principale fonte di ricchezza, la proprietà terriera non è più un parametro per determinare il censo. Non gode più quindi della grande considerazione che aveva in passato nella società. Ma la visione retrospettiva della vita rurale, che si coglie anche in questo volume, soprattutto quando si racconta degli anni iniziali della famiglia Piazza, non può non riportarci a tempi in cui la vita contadina era modello di pace sociale. Modello generalmente imposto ed esempio di vita, povera ma dignitosa, sicuramente ispirata ai principi di solidarietà ed al rispetto dei valori umani ed idealistici, compreso patriottismo e religiosità, che hanno consentito all’Italia di fare quel grande passo che l’ha portata ad essere uno dei paesi più industrializzati al mondo, con tutte le conseguenze del caso, sia positive sia negative.
La campagna, dunque, non è rimasta ferma: è profondamente cambiata, si è evoluta, attraverso la meccanizzazione di tutte le principali operazioni, dalle semine al diserbo, dal raccolto al trasporto.
Nell’economia autarchica dell’anteguerra fino ad arrivare agli anni Sessanta e Settanta, oltre alla stalla, fondamentale per l’approvvigionamento di carni, latte e formaggi, si dovevano riempire i granai per sfamare la popolazione. Dal Rinascimento in poi la Romagna, unitamente all’Emilia, diventò anche centro di produzione ed esportazione in Europa di prodotti tipici di pregio; dalla canapa, per la produzione di tessuti, fibre e cordami, alla mortadella, prima ancora dei prosciutti. Per arrivare poi alle bietole, per ricavarne zucchero e mangimi, e infine alla verdura e alla frutta, all’uva e al vino, settori specialistici dove la nostra regione ha primeggiato in Europa e ancora eccelle.
Un mondo in evoluzione continua e il culto della memoria
La famiglia Piazza ha seguito, lungo il corso di oltre un secolo, tutte queste trasformazioni e insieme a migliaia di altre ne è stata protagonista. Nel corso dei decenni gli eredi di Giovanni, classe 1888, hanno seguito gli andamenti e le evoluzioni della società romagnola mirando sempre a far sì che le loro condizioni di vita facessero dei passi in avanti. In tutto questo è stato fondamentale l’apporto delle donne, come ampiamente è messo in evidenza in questo volume. Non sono mancate ovviamente le gioie e i dolori, i successi e gli insuccessi, ma di tutti si può dire: “Indifferenti mai, grigi mai, rossi sì, e pronti a sacrificarsi per il bene comune”.
Hanno fatto bene Emanuela e Morena Piazza, come evidenziano, a: “Voler tener conto di un culto ormai antico, recuperare quei principi che animarono i nostri avi, che erano passione politica, lotta, fede, un ideale. (…) Perché loro sono e saranno ancora vivi finché avremo cura della loro memoria, se sapremo reagire per interpretare i segni dei tempi in cui siamo destinati a vivere e preparare la pace”.
Dobbiamo essere grati a Emanuela e Morena per questo lavoro nella speranza che anche altre o altri prendano spunto per raccontare la storia della propria famiglia, in modo che il filo della memoria sia sempre più lungo.
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