Seconda puntata de "La mia Albania" di Jacopo Rinaldini
Seconda tappa de “La mia Albania” di Jacopo Rinaldini.
Sembra una bambola di porcellana in pezzi, invece è una casa crollata, che equivale a una famiglia senza un tetto.
Ha fattezze umane e tutt’intorno si avverte una sensazione di malinconia: quel luogo lacerato è il mio cuore e non posso non portarmi una mano al petto. Vorrei dirvi che piango le vostre stesse lacrime e che le crepe che corrono lungo le antiche mura bizantine di Durazzo squarciano anche il mio animo. Vi capisco e proprio per questo ho deciso di raccontarvi.
Sono trascorsi giorni lunghi come anni dall’istante in cui il sisma cambiò per sempre il volto del paese che si affaccia al di là del mare: l’Albania. La voce, come la terra, trema ancora eppure negli sguardi dei tanti fratelli e sorelle albanesi non leggo rassegnazione.
Paura, disperazione e rabbia certamente sì, ma a ben guardare non v’è alcuna sfumatura di accettazione dell’inevitabile: qui, nessuno intende chinare il capo. Qui, si tiene duro e si stringono i pugni con la forza dell’orgoglio.
C’entra poco, forse nulla, però quel venditore di frutta incontrato lungo la strada, a Fier, è un po’ il simbolo di un’umanità votata al sacrificio, ma che non si arrende dinanzi alla spietatezza della vita. Che colpa ha?
Quando ha aperto il suo cuore, raccontandomi la sua storia, l’unica domanda che avrei voluto porgli è “Perché? Perché a te, fratello mio?”
Posso solo porre domande e raccontare. Di seguito il secondo appuntamento de La “mia” Albania.
Quest’uomo trascorre i suoi giorni tra frutta e verdura, attendendo che un’auto si fermi e che qualcuno acquisti le sue merci. Tutto il giorno, tutti i giorni.
Lavora sodo, perché la figlia che vive in Italia ha bisogno d’aiuto: lui fa quello che può.
“Da quanto non la vedi?”, gli domando.
“Non lo so, tanto tempo”, risponde. Gli occhi si velano di lacrime, ma con un gesto della mano le spazza via. Un gesto risoluto, forse un moto d’orgoglio. Fisso la ghiaia dinanzi alla sua banchetta. Mi sento piccolissimo. Silenzio.
Vorrei dirti che ti capisco, che sono dalla tua parte, che soffro della tua sofferenza, che so bene che le rughe che attraversano il tuo volto non dipendono unicamente dall’incedere dell’età. Non ce la faccio, perdonami amico d’un momento eterno.
Poi, quasi per riparare a qualcosa, mi porge un fico e mi dice “Forza Juve”, sorridendo.
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