Uno dei maggiori peccati che giustamente l’opinione pubblica imputa ai mezzi di comunicazione è l’invasione degli spazi di privacy degli individui, non sempre giustificata dalle preminenti ragioni dell’informazione. Parrebbe semplice per converso mettere alla berlina l’ossessione odierna per la privacy comparandola all’esibizionismo sfrenato dei selfie e dei social network. La realtà è che, nell’ombra della legislazione e nel sostanziale disinteresse dei cosiddetti “garanti”, la nostra privacy è da tempo ridotta allo stato di merce, peraltro facilmente acquistabile presso gli uffici che in teoria dovrebbero tutelarla. Particolarmente inquietante è il caso del mercato dei dati sanitari. Teoricamente i dati della nostra salute dovrebbero essere protetti e resi anonimi. Nella pratica comune (negli Stati Uniti se ne parla già con preoccupazione dagli anni Novanta) le aziende possono facilmente risalire al nostro ‘profilo sanitario’ attraverso l’incrocio delle schede di dimissione ospedaliere che restano in archivio e possono essere rilasciate ai ricercatori per fini di studio. Sono ovviamente anonime, ma contenendo dati importanti come sesso, data di nascita e comune di residenza, possono facilmente essere incrociate coi dati dell’anagrafe. E così è possibile identificare (e fotografare lo stato di salute) del 90 per cento dei cittadini passati da un ospedale, pubblico o privato che sia. Per le aziende che vendono medicinali, prodotti dietetici e altro questi dati sono oro colato. Ma non è solo questione di marketing. Pensiamo infatti all’utilizzo che può fare di una conoscenza del genere una banca che deve erogare un mutuo o un’assicurazione che deve stipulare una polizza.
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