Novembre è il mese di don Pippo, il “parroco di Forlì”
(tratto da “Personaggi di Forlì. Uomini e donne tra Otto e Novecento” volume due, di Marco Viroli e Gabriele Zelli, in uscita per i tipi del «Ponte Vecchio» a fine novembre 2015)
Ancora oggi, a Forlì, il ricordo della figura di monsignor Prati – molto amato dai suoi concittadini che lo chiamavano affettuosamente don Pippo – resta indelebile, specie tra i più anziani.
Nella vita di Giuseppe Prati il mese di novembre ebbe una indiscutibile centralità. Don Pippo nacque infatti a Forlì il 4 novembre 1885, quartogenito di Antonio e Gertrude Giunchi, gestori di una modesta bottega di rigattiere, in una casa sita nell’attuale via Achille Cantoni al numero 33, dove una lapide ricorda:
IN QUESTA CASA / IL DÌ 4 NOVEMBRE 1885 / NACQUE GIUSEPPE PRATI / SACERDOTE / CONOSCIUTO COL NOME DI DON PIPPO / HA LASCIATO DI SÉ / UNA TESTIMONIANZA DI UMANITÀ E DI FEDE / VISSE 67 A. E 5 GG. / IL MUNICIPIO / A RICORDO / Q.M.P. / FORLI’ 9 NOVEMBRE 1995
Venne battezzato il giorno dopo la nascita nell’Abbazia di San Mercuriale (luogo anch’esso centrale nella vita di don Pippo) con i nomi di Giuseppe, Antonio, Domenico.
Nell’aderire alla chiamata alla vocazione mancò il mese di novembre di un solo giorno: entrò infatti in seminario il 31 ottobre 1896. Un grave handicap lo colpì sin dal 1904, quando ricevette dai medici il divieto di leggere a causa di un distacco della retina, oggi probabilmente curabile con un intervento ambulatoriale, che allora gli procurò la perdita di circa due terzi della vista.
Nonostante ciò, il giovane don Pippo non si perse d’animo e, dopo essere stato ordinato presbitero (13 giugno 1908), nel 1910 fu mandato a ricoprire il ruolo di cappellano nella parrocchia forlivese dei “Cappuccinini”, ove si dedicò all’educazione dei giovani dell’oratorio.
Nel 1914 ricevette la nomina ad assistente ecclesiastico dell’Istituto San Luigi, dove ebbe modo di mettere in luce e confermare le sue qualità di educatore. Come allievi ebbe tra gli altri il futuro senatore Roberto Ruffilli, ucciso dalle Brigate Rosse nell’aprile del 1988, e Diego Fabbri, al quale trasmise la sua grande passione per il teatro. Nel suo primo lavoro, “I fiori del dolore” (1931), il commediografo forlivese volle rendere onore all’insegnamento ricevuto dal maestro con una toccante dedica: «A Don Pippo, che per primo mi insegnò come fecondare di dolore le aiuole dei fiori».
Giuseppe Prati non fu solo uomo di spirito, fu anche un grande appassionato d’arte e, oltre che di teatro, lo fu soprattutto di musica. Come compositore scrisse le note del popolarissimo inno “Di vivida fiamma”, dedicato alla Madonna del Fuoco, patrona di Forlì, e fu autore di litanie, mottetti, inni, laudi e una Messa a 2 voci, spesso accompagnati dai testi scritti da monsignor Adamo Pasini.
Fondò «Il Momento», ancora oggi periodico settimanale della diocesi di Forlì-Bertinoro, il cui primo numero uscì il 5 gennaio del 1919 e di cui don Pippo fu direttore fino al 1952, se si esclude qualche periodo di interruzione dovuto alla guerra e alla censura fascista.
Uomo dai molteplici interessi, tra le iniziative alle quali partecipò vi fu, sempre nel 1919, la costituzione del Partito Popolare, mentre, nel 1923, fu tra gli artefici della nascita dello Scoutismo a Forlì. Da ottobre del 1928 divenne padre spirituale in seminario, dove ebbe tra i suoi allievi don Arturo Femicelli.
La svolta importante nella sua carriera ecclesiale avvenne il giorno di Santo Stefano del 1936 quando fu nominato parroco di Santa Lucia a Forlì. Amato e stimato da tutti, per otto anni si dedicò anima e corpo alla sua parrocchia, fino a che, il 19 marzo 1944, nel momento che anticipava il passaggio del fronte, venne nominato parroco dell’Abbazia di San Mercuriale, la chiesa più antica e più rappresentativa della città e forse dell’intera Romagna. Tale e tanto fu il suo impegno in quei giorni terribili, giorni di bombardamenti e di massacri, che la gente di Forlì iniziò a chiamarlo “il parroco della città”.
Nel 2008, l’ex comandante partigiano Giorgio Pettini ci consegnò una sua testimonianza scritta sul terribile bombardamento di piazza Saffi, avvenuto il 25 agosto 1944: «Don Pippo aveva un coraggio incredibile. Sette giorni dopo l’impiccagione in Piazza Saffi di Corbari, di Iris Versari, di Casadei e del mio fraterno amico Arturo Spazzoli, poco dopo le 9.00 di mattina di un giorno assolato quattro stormi di bombardieri bimotori Boston piombarono su Forlì. Non venivano dal mare come al solito e volavano bassissimi a 2000 metri. Colpirono il centro storico sino alla ferrovia. (…) Mentre ero appena giunto sotto il loggiato di destra, dov’ è lo storico palazzo del Podestà, giunse l’ultima ondata di bombardieri. Vidi don Pippo in piedi solitario poco vicino al monumento a Saffi raccogliere feriti, con le sue deboli forze. Benedire i caduti, tentare di fermare emorragie. Abbattuto dalle esplosioni si rialzava sempre e correva da un caduto all’altro (…)».
Passò poi la terribile estate del ’44, che Forlì e la Romagna vissero tra rastrellamenti e massacri. Un’estate in cui la città si svuotò ulteriormente, perché, chi poteva, sfollava in collina o in campagna, lontano dagli allarmi aerei e dai bombardamenti. Nel frattempo la Linea Gotica avanzava e i tedeschi sentivano sempre più vicino il fiato degli alleati.
Fu a questo punto che, nella vita di don Pippo, divenne nuovamente cruciale il mese di novembre. L’8 novembre, infatti, insieme a quello del Duomo e alla Torre Civica, il Campanile di San Mercuriale venne minato dai tedeschi che stavano frettolosamente ritirandosi da Forlì. I racconti popolari narrano che l’antica guglia si salvò grazie all’intervento di don Giuseppe Prati, anche se determinante dovette essere l’opera di intermediazione dell’allora vescovo della città, monsignor Giuseppe Rolla, che sicuramente pagò un prezzo cospicuo in termini di vettovaglie e bestiame all’esercito tedesco in ritirata.
È di nuovo Giorgio Pettini che scrive nel suo memoriale: «(…) Tutta la città si era subito convinta che la salvezza della millenaria abbazia e del suo celebre campanile si doveva a don Pippo. Ma come avesse fatto a difenderla dai genieri tedeschi, inerme com’era, nessuno lo sapeva anche se appariva ovvio che l’artefice della salvezza del campanile apparisse comunque lui. Alle migliaia di domande dei concittadini non diceva nulla. A quanti lo ringraziavano sorrideva e se ne andava silenzioso…».
A lato della porticina d’accesso all’imponente campanile che da quasi un millennio svetta sulla città, una lapide ricorda la figura di questo uomo giusto e coraggioso:
PRESSO IL BEL CAMPANILE SALVATO DALLA FURIA BELLICA / IN GIORNI DI TORMENTA FU CHIARA FONTE DI CONFORTO E SPERANZA / SICURO APPRODO DI TUTTA LA CITTÀ IL GRANDE CUORE DI / MONS. GIUSEPPE PRATI (1885-1952) DON PIPPO / EDUCATORE PUBBLICISTA PARROCO / ANIMATORE SEMPRE DI SOLIDALE IMPEGNO E FRATERNA CONVIVENZA / IN GIOIOSA PATERNITÀ DI SPIRITO FATTOSI TUTTO A TUTTI / AL SERVIZIO DELLA VERITÀ E DELLA PROMOZIONE DELL’UOMO.
Sta di fatto che il 9 novembre, giorno della Liberazione di Forlì, monsignor Prati fu portato in trionfo, come raccontò Giuseppe Mangelli, collaboratore dello stesso don Pippo a San Mercuriale: «… la Liberazione giunse improvvisa. Sentimmo di primo mattino come un prolungato crepitio di mortaretti e poi, sempre più forte e vicino, il rumore confuso di voci che chiamavano don Pippo. Alcuni di noi uscirono subito fuori con lui. E allora avvenne una di quelle scene, non nuove certo (don Pippo ci aveva abituati a tutto), ma sempre commoventi e indimenticabili. Fu portato quasi in trionfo, abbracciato e baciato da numerosi cittadini, a capo dei quali era il futuro sindaco Franco Agosto, appartenenti ai più diversi partiti politici».
Un’altra testimonianza, quella dello storico Dino Mariani, conferma quanto sostenuto da Mangelli: «Nella piazza della città i partigiani e il popolo avevano acclamato don Pippo, all’inizio dell’opera di ricostruzione, come un padre e un salvatore. Nella prima riunione pubblica del Comitato di Liberazione, composto da esponenti di ogni partito si gridò “Viva don Pippo” e il primo cittadino di Forlì, appartenente ad una corrente di estrema sinistra, abbracciò l’umile sacerdote che in quel momento impersonava i dolori e le gioie di tutti i cittadini ed era la persona più amata e ben voluta da tutti».
Nel 1946, quando «Il Momento» riprese le pubblicazioni, don Pippo scrisse: «Non ci faremo meraviglia, se per la verità, per il bene della Nazione, per la Chiesa, per Cristo avremo qualche cosa da patire. D’altra parte, questa nostra spirituale e materiale indipendenza, per cui mai siamo stati agganciati ad alcuna greppia, né abbiamo goduto di facili ed abbondanti propine, è la nostra più vera gloria e la garanzia per chi legge della nostra sincerità».
Qualche anno dopo, novembre tornò di nuovo in modo cruciale e definitivo nella vita del “parroco di Forlì” che il 9 novembre 1952 si spense all’improvviso, esattamente 8 anni dopo aver concorso al salvataggio del campanile più amato della Romagna. Le sue esequie si tennero due giorni dopo, ovviamente a San Mercuriale.
Le sue opere e il suo insegnamento gli sopravvissero. Il giorno prima di morire, don Pippo aveva indirizzato a Elisabetta Piolanti e Gaspare Maiolani il seguente invito: «Pensate ai ragazzi soli, quelli che la società pone ai margini, portateli nella vostra casa e avviateli al lavoro: quello che non faccio in terra, lo farò dal cielo». Fu così che, alla fine del 1952, nacque la Fondazione “Opera Don Pippo”, tuttora operativa in via Cerchia 101, che si compone di un Centro residenziale, di un Centro diurno e di un Gruppo appartamento.
Dopo la scomparsa di don Giuseppe Prati, la rivista «La piè» volle ricordarlo con queste parole: «(…) Una squallida povertà terrena, una diffusa ricchezza spirituale, un continuo donare ai poveri, senza nulla chiedere agli abbienti, una logora veste, una profonda pietà con i legami di Dio».
Ogni anno, il 9 novembre, la città di Forlì si ferma per commemorare l’anniversario della scomparsa del suo amato “parroco”.
Nel 1957, nel quinto anniversario della scomparsa, le spoglie di don Pippo, inizialmente inumate nel Cimitero Monumentale di Forlì, vennero traslate nella Basilica di San Mercuriale, presso la Cappella dei Ferri. Nella parete a sinistra dell’altare, su una lapide con ritratto in bassorilievo sta scritto:
1885 – 1952 / NEL TEMPIO DELLE ANTICHE GLORIE FORLIVESI / RESTITUITO ALLE CLASSICHE FORME ORIGINARIE / RIPOSANO LE VENERANDE SPOGLIE / DELL’ABATE PARROCO / MONS. GIUSEPPE PRATI / VERO SACERDOTE DI CRISTO UMILE E POVERO / CHE AI GIOVANI IL CRISTIANO ARDIMENTO / AI MISERI L’AIUTO E IL CONFORTO / A TUTTI DONÒ LUCE D’INSEGNAMENTI E DI ESEMPIO / PASSANDO FRA IL POPOLO / IN BENEDIZIONE / LA SALMA FU QUI TRASLATA DAL CIMITERO URBANO / IL 9 NOVEMBRE 1957
Si tratta della terza lapide alla memoria (non ci risulta che nessun altro, se non Aurelio Saffi, ne abbia altrettante a Forlì) che commemora l’uomo forse più amato dai suoi concittadini nel XX secolo.
E i ricordi e le intitolazioni non si fermarono qui. Il 17 dicembre 1994, infatti, l’amministrazione comunale volle dedicargli anche la piccola piazzetta posta a sinistra della facciata dell’abbazia, confinante con Largo de Calboli.
Per concludere, e tanto ancora ci sarebbe da dire, riportiamo ciò che Alessandro Rondoni, direttore del «Momento» dal 1989 al 2009, scrisse nel numero speciale del 5 novembre 2002, in occasione del 50° anniversario della morte del fondatore del giornale: «… Don Pippo è nel cuore dei forlivesi, dopo cinquant’anni segna indelebilmente la storia della nostra Chiesa e della nostra città. E’ un po’ come il campanile di San Mercuriale, qualcosa che tutti sentono proprio. Ci lamentiamo spesso che mancano maestri, riferimenti sicuri, valori certi, ma non è vero. Don Pippo e tanti sacerdoti, con lui e come lui, hanno operato e operano fra la nostra gente e nella nostra città. Basta riconoscerli e andare loro dietro. Anche la piazzetta a lui dedicata l’ha inserito nel centro della città di Forlì. I “burdèl” di allora cominciano ad invecchiare, alcuni testimoni come don Fusconi, don Scaccini, don Ricci e tanti altri che hanno fatto un secolo di fede a Forlì ci hanno già lasciato, ma il profumo di quella “santità” rimane una chiara impronta della coscienza del nostro popolo».
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