Patrizia Turci è la Presidente della Cooperativa Sociale Tragitti di Forlì; da sempre lavora in psichiatria, materia che per lei non è solo un lavoro, ma un affascinante ed enigmatico stimolo di vita, o, come dice lei stessa, ‘la relazione attraverso cui valutare il proprio essere-nel-mondo’.
ED: La Cooperativa Tragitti ha confermato la sua presenza alla Settimana del Buon Vivere 2013. Patrizia, puoi descrivere brevemente l’evento proposto per quest’anno e quello realizzato per l’edizione passata per chi non fosse stato presente?
PT: L’evento di quest’anno è ancora un work in progress. La nostra intenzione è organizzare una manifestazione più specialista per gli addetti ai lavori sui temi della riabilitazione psichiatrica, la programmazione territoriale e i budget di salute.
L’anno scorso il nostro evento per La Settimana del Buon Vivere si è rivolto alle scuole superiori, e di conseguenza è stato un’occasione divulgativa. Il focus è stato sugli ospedali psichiatrici giudiziari e in quell’occasione abbiamo proiettato il video della Commissione sull’Efficacia e l’Efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, presieduta dal Senatore Ignazio Marino.
ED: Che cosa ti è rimasto impresso dell’evento 2012?
PT: C’è stata qualche domanda da parte dei ragazzi, che, come si può immaginare, non sono a conoscenza del linguaggio di settore né della psichiatria né giuridico. Mi ha colpito in modo particolare un intervento da parte di uno studente che, interpellato sul video, confessava di percepire molta rabbia.
ED: La rabbia è un sentimento onnipresente nella vita di ognuno di noi. Immagino che questa trasversalità possa essere un buon punto di partenza per spiegare la sottile linea tra un’esistenza afflitta da gravi disturbi e una caratterizzata da disagi più contenuti che, pur essendo presenti, permettono però la quotidiana funzionalità della persona.
PT: Esatto. Il limite tra follia e normalità è il motivo per cui noi siamo così appassionati del nostro lavoro. Ogni giorno il paziente ci dà modo di confrontarci con noi stessi, impariamo a vicenda l’uno dall’altro; coloro che soffrono di un disturbo psichiatrico sono persone che, spesso, nell’angosciante sofferenza esprimono infinita ricchezza e sensibilità. Attraverso il nostro lavoro noi costruiamo rapporti possibili perché costituiti da persone umane con simili e, allo stesso tempo, diverse necessità e desideri di comprensione. Un ramo molto affascinante della nostra materia è l’etno-psichiatria; questa ‘disciplina’ si sofferma sulle differenze culturali e di contesto che molto spesso classificano l’individuo all’interno della società. Chi da noi è considerato un malato mentale, altrove, per esempio, è il capo spirituale di una tribù.
ED: Che cosa significa esattamente salute mentale? Per i non addetti ai lavori questo è un termine molto tecnico e poco emotivo. Non trovi?
PT: Sì, il termine fa parte di un registro specifico di categoria. È un errore pensare che salute mentale implichi guarigione: in realtà, non è un evento scontato. Il termine ‘salute mentale’ è più riconducibile a un processo, un percorso finalizzato a vivere bene in un contesto sociale. La psichiatria dovrebbe mettere a disposizione delle persone gli strumenti per poter “funzionare” all’interno del contesto sociale, contrastando l’isolamento. Noi come Tragitti tendiamo a non promuovere attività all’interno della struttura, ma a favorirne solo di esterne in modo da usufruire delle risorse del territorio.
D’altronde la malattia mentale è una malattia sociale, di esclusione, per cui l’individuo si isola, invece che ri-conquistare il suo posto nel mondo.
ED: Senza ombra di dubbio mi stai descrivendo una situazione tra le più complesse, anche perché non abbiamo a che fare con meri numeri e dati, ma con esseri umani dai bisogni diversi per cui non esiste mai un unico percorso terapeutico. Quali sono gli obiettivi di Tragitti?
PT: Prima di tutto il nostro vuole essere un approccio umanistico; il nostro intervento è di presa in carico e riabilitativo, non di custodia. Sì, è un lavoro complesso: è un percorso fatto di errori perché si tratta di esseri umani che si confrontano l’uno con l’altro. In più si tratta di un lavoro complesso perché possiamo dire che esiste ancora un certo rifiuto da parte della società che non è del tutto accogliente e tende a stereotipare la persona ‘non capace di intendere e volere’. L’operatore si ritrova, tra le altre cose, a svolgere un lavoro di difficile mediazione sociale
La salute mentale è Buon Vivere nella sua accezione di ‘benessere’ e buona qualità, Buon Vivere perché risponde alle esigenze territoriali creando un dialogo con esse, Buon Vivere perché l’obiettivo riabilitativo può essere raggiunto solo tramite una riconquista sociale e dell’individuo del proprio essere-del-mondo. Che è Buon Vivere.
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