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Il 2 aprile 1840, dopo 3 giorni di agonia, moriva Michele Placucci, padre fondatore degli studi etnografici romagnoli

 

Nel 1840, l’attuale via Moroni, traversa di corso Garibaldi, fu teatro di un efferato delitto, in parte irrisolto. Il 30 marzo, mentre rincasava, Michele Placucci fu aggredito in quest’angusta viuzza. Il misterioso assalitore gli sferrò una violenta coltellata che gli perforò un polmone. La ferita causò al Placucci un’agonia terribile che, il 2 aprile, lo condusse alla morte. Subito dopo l’agguato, il poveretto non perse conoscenza e riuscì a sussurrare di aver riconosciuto l’aggressore, senza però rivelarne il nome. Secondo la famiglia l’assassino sarebbe stato un figlio illegittimo del Placucci che aveva voluto punire il padre, non intenzionato a mantenerlo o contro il quale rivendicava interessi affettivi o economici.

Michele Placucci era una figura di primo piano nella vita forlivese di quei tempi. Nel 1797, ad appena 15 anni, era stato impiegato presso l’amministrazione napoleonica. Come funzionario comunale pontificio aveva poi scalato vari gradi di carriera fino a ricoprire la carica di capo segretario. Fu inoltre diligente raccoglitore di documenti di storia forlivese, conservati oggi nella Biblioteca Civica. Forlì.Autore di varie opere di storia locale, tra cui Memorie storiche sul passaggio per la città di Forlì di SS. Papa Pio VII, divenne famoso soprattutto per Usi e pregiudizi dè contadini della Romagna (1818), la pubblicazione grazie alla quale è oggi ritenuto il padre fondatore degli studi etnografici romagnoli. Placucci suddivise il suo studio, in dieci capitoli: Delle nascite, De’ matrimonj, De’ mortorj, Delle operazioni di agricoltura praticate da’ contadini in ciascun mese dell’anno, Degli usi, e pregiudizj relativi a certe epoche principali dell’anno, Degli usi, e pregiudizj sugl’influssi celesti e intemperie, De’ pregiudizj relativi a certi medicamenti, Dei pregiudizj sull’economia domestica, Dei malefizj, Delli diversi usi in generale.

«Per la Madonna del Fuoco di Forlì li contadini fanno de’ fuochi dal piano al colle, e cantano: Ligrezza, ligrezza ligrezza; Madunena banadetta, Madunena da Forlè, fê alligrezza ancor a me» (Allegria; ma pura e schietta: Vergin Santa benedetta, di Forlì gran Protettrice, fa allegrezza a me infelice).

Questa consuetudine, in auge ai primi anni dell’Ottocento, è riportata nel volume “Usi, e pregiudizi de’ contadini della Romagna” di Michele Placucci, edito a Forlì da Barbiani, nel 1818. L’usanza pone in evidenza che, mentre i fuochi in campagna non vengono più accesi, molto viva, e tale va mantenuta, è rimasta ancora oggi a Forlì e dintorni la tradizione dell’accensione dei lumini rossi sul davanzale delle finestre nella notte fra il 3 e il 4 febbraio.

Vale la pena ricordare chi fu Michele Placucci, nato a Forlì il 24 agosto 1782. Nel 1797, anno della conquista del nord e di gran parte del centro Italia da parte dell’esercito francese comandato da Napoleone Bonaparte, a soli 15 anni, Placucci iniziò a lavorare, prima come impiegato pubblico nell’Amministrazione Centrale dell’Emilia, poi (terminata la dominazione francese) come funzionario comunale pontificio, scalando vari gradi di carriera fino a raggiungere il posto di segretario generale.

Secondo quanto scrisse Antonio Mambelli (Forlì 1890 – 1976), come dipendente pubblico «lasciò tracce di solerte operosità nell’applicazione del codice napoleonico, e, come studioso, in numerose raccolte di documenti di storia patria conservate nella Biblioteca Comunale “Aurelio Saffi” di Forlì. Seppur componente della Guardia Nazionale durante il Regno Italico con il grado di capitano, fu politicamente fedele al precedente Governo pontificio dandone prova nel volume “Memorie storiche sul passaggio per la Città di Forlì di Sua Santità Pio VII felicemente regnante e sul ripristino del di lui governo” (Faenza, Conti, 1822)».

Nel 1811 il ministro dell’Istruzione Pubblica del Regno Italiano promosse un’inchiesta sulle usanze nelle nostre campagne. Placucci vi prese parte e compì ricerche molto approfondite, al termine delle quali diede alle stampe il volume già citato che, nel 1885, conobbe una seconda edizione. In tempi più recenti l’opera di Placucci è stata pubblicata, in edizione limitata, dal senatore Andrea Manzella e in seguito in un’altra edizione, curata da Giuseppe Bellosi, voluta dall’Associazione culturale “Istituto Friedrich Schürr” di Santo Stefano di Ravenna.

Come ebbe modo di commentare Carlo Piancastelli, uno dei più acuti interpreti della cultura e della società romagnola, Michele Placucci fece da apripista, essendo stato il primo a cimentarsi nel campo delle ricerche etnologiche: «(…) dopo di lui – scriveva Piancastelli – nessuno si è accinto alla stessa impresa, mettendo a profitto il materiale che si è venuto accumulando e disponendo di un complesso organico, secondo i dettami della nuova scienza del folclore (…) Il libro è stato concepito con tanta schietta sincerità, con intuito così logico, da suscitare la calda ammirazione degli studiosi ben più riflessivi e scaltriti venuti dopo; eppure rimase per sessant’anni pressoché ignorato».

Quando il libro di Placucci fu “scoperto”, suggestioni, miti e credenze in esso contenuti, diventarono materia per la critica e per l’arte, per la poesia e per il romanzo.

“Usi, e pregiudizi de’ contadini della Romagna” testimonia anche un delicato passaggio storico: la trasformazione che dilagò, lentamente, la vita dei campi e che condusse al progressivo smantellamento della società mezzadrile. L’uomo che scandiva i tempi degli “usi e pregiudizi” era, infatti, il mezzadro che condivideva con i proprietari terrieri la gestione e i profitti delle terre. Una formula produttiva che sin dal Medioevo provocò sviluppo ma anche tensioni, miseria e, al tempo stesso, progresso. Vero è che la mezzadria sopravvisse fin oltre la metà del Novecento, ma le prime crepe di questo impianto secolare si manifestarono proprio negli anni in cui scriveva Placucci. In “Usi, e pregiudizi de’ contadini della Romagna” emerge che dall’aia alla dimora rurale, dalle stalle ai campi arati, la società iniziava ad avvertire il logorio del tempo e che le tracce del mutamento iniziavano a manifestarsi e a fare breccia.

Non si può che concordare, quindi, con quanto scritto a questo proposito dallo storico Roberto Balzani: «È stato Michele Placucci a raccontarci che cosa queste popolazioni avessero davvero in comune. Non l’idea astratta di un confine. Ma la familiarità con un universo di simboli e di valori che rassicuravano e che interpretavano, senza bisogno di una mappa, il senso del noi».

Si parla di anni in cui la “romagnolità” era spesso inconsapevole, tutta ancora da codificare. «Placucci non ha alcun intento regionalista – continua Roberto Balzani –. Per lui che è un solerte impiegato pubblico, si tratta di presentare, adeguatamente ordinati, i dati raccolti all’interno del Dipartimento del Rubicone. Il Dipartimento comprende gran parte di quella che si è soliti chiamare Romagna, ebbene è evidente che la sua ricerca non può prescindere da questa denominazione storica, l’unica che consente la fusione dei dati locali. Una scelta funzionale? In parte sì. Placucci non si pone un problema terminologico o di definizione dettagliata dei confini».

Placucci, insomma, sintetizza elementi diffusi, comuni, sparsi tra aree simili, così vicine da un punto di vista territoriale e allora così lontane per via degli scarsi rapporti che intercorrevano tra esse.

Per far fronte alle spese di pubblicazione del volume, nel 1818 fu avviata una sottoscrizione, che anticipò di oltre un secolo e mezzo le moderne raccolte fondi, cui concorsero ben 218 “Signori Associati”. Dalla lettura dell’elenco dei nomi dei sottoscrittori che compare nel libro ci si può fare un’idea precisa di chi fossero allora le persone e le famiglie più in vista della città, come pure comprendere l’interesse che destò quella pubblicazione in cui veniva raccontata la vita contadina del tempo: dalla nascita al matrimonio, dalla cura delle malattie alla vita familiare, passando per il lavoro dei campi, e di come un forte senso religioso segnasse i tempi delle semine e dei raccolti. Non essendo ancora diffusi i calendari come sono intesi oggi, negli almanacchi si riportano gli abbinamenti tra i giorni dell’anno e i santi e a questi ultimi era collegato un rapporto diretto con la vita quotidiana. Lo stesso avveniva per le attività agricole, per le malattie, per le relazioni sociali, per ogni passo dell’esistenza. Placucci descrisse così tutte le pratiche che doveva seguire una donna in attesa di un figlio, come avveniva il battesimo, ma anche i corteggiamenti, le nozze, i divertimenti.

«È un libro denso e vero – scriveva nel 2004 il senatore Andrea Manzella, in occasione della ristampa anastatica dell’opera di Placucci – perché indica, con dovizia di particolari, quanto avveniva durante le festività, durante i giorni dediti al sacro e a quelli del lavoro, nonché “della lotta per avere raccolti sufficienti ad una vita decorosa. Come combattere le avversità meteorologiche, come rendere fecondi i terreni e sane e abbondanti le piantagioni”. Nel riportare le usanze di quel periodo Placucci non tralasciò la vita domestica, le case rurali, i luoghi dei riti, il rapporto con la sofferenza fisica e le forme di diffidenza verso embrionali forme di medicina moderna che pur si stavano affermando. Insomma, il libro offre un’immagine a mosaico, dove tanti piccoli tasselli colorano una società viva e sfuggente, animata e ricca, che pone al centro l’uomo e il suo dialogo con lo spazio e il tempo».

Placucci fu figura di primo piano nella vita forlivese dei suoi tempi, come in tanti hanno avuto occasione di rimarcare. La sua morte, avvenuta il 2 aprile 1840, resta ancora oggi uno dei misteri irrisolti della città di Forlì.

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