Una pianta da preservare e valorizzare
In un precedente articolo ho messo in evidenza la presenza nell’area verde di via Bertini angolo via Balzella di una pianta di tamerice secolare, che fino a quarant’anni fa faceva parte delle coltivazioni di una casa colonica, prima dell’utilizzo dell’area per nuove costruzioni di carattere commerciale. Il testo ha destato interesse tanto che mi sono giunte diverse segnalazioni su piante presenti nel territorio forlivese che per varie caratteristiche meritano di essere conosciute. Come il giuggiolo centenario del Parco Urbano “Franco Agosto”, già citato nel volume “Forlì. Guida alla città” di Marco Viroli e Gabriele Zelli, Diogene Books, Forlì 2012, al pari degli altri edifici e monumenti storici della città. La pianta in questione si trova nelle adiacenze della vecchia casa colonica trasformata in birreria-pub denominata “La Collina dei Conigli”, tanto che sotto i suoi rami sono collocati, in modo troppo imprudente, diversi tavoli dell’attività commerciale citata. A ridosso del giuggiolo corre un muro dove da una parte l’artista forlivese Irene Ugolini Zoli (1910 – 1992) realizzò un graffito, tuttora esistente, opera da salvaguardare e valorizzare.
Il Giuggiolo (Zizyphus jujuba) è un piccolo albero, appartenente alla famiglia delle Ramnacee, che può arrivare al massimo a 6/8 metri di altezza, originario delle regioni temperate della Cina (altre fonti lo danno originario dell’Africa Settentrionale e della Siria) e successivamente diffuso in tutti i paesi subtropicali e nel bacino mediterraneo. La pianta si riproduce anche per seme, ma più frequentemente è propagata per mezzo dei numerosi polloni radicali che produce in abbondanza. È una pianta ricercata dalle api che ne ricavano un buon miele.
Secondo Radames Garoia e Nivalda Raffoni, cultori delle tradizioni popolari romagnole, in Romagna “il giuggiolo era usato in passato anche per formare siepi difensive nei confini degli appezzamenti, in quanto avendo il tronco e i rami muniti di spine che creano un fitto intreccio rendono difficile il passaggio. In molte case coloniche era coltivato adiacente all’abitazione, nella zona più riparata ed esposta al sole. Si riteneva che fosse una pianta portafortuna, assieme al melograno e alla vite, coltivata a forma di pergolato. Ancora oggi, girando per la campagna romagnola, possiamo vedere, accanto ai miseri ruderi di una casa colonica semidiroccata, una pianta di giuggiolo resistere al tempo che scorre, testimone di una vita passata, fatta di lavoro, sudore e fatica contadina”.
“Il legno di giuggiolo è duro e pesante, di colore rosso, piuttosto pregiato”, evidenziano Radames Garoia e Nivalda Raffoni, “ideale per lavori di scultura ed ebanisteria. Le radici vanno molto in profondità, fatto che rende il giuggiolo resistente a calura e siccità anche in terreni poveri. I rami sono tortuosi, spinosi con foglie alterne, semplici, lanceolate, liscie e lucide. Il giuggiolo produce un gran numero di fiori di piccole dimensioni dal colore bianco verdastro riuniti in dense cime ascellari; la fioritura avviene da giugno ad agosto; la maturazione dei frutti tra settembre e ottobre.
Il frutto, la giuggiola (la zezla, nel dialetto forlivese), chiamata anche dattero cinese, è una drupa simile all’oliva, ovale o rotonda di colore marrone chiaro e rossastro in fase di maturazione, con polpa biancastra poco succulenta e di sapore dolce, contenente un unico grosso seme all’interno.
La giuggiola, ricca di vitamina C, diuretica e lassativa. ha un gusto dolce e leggermente acidulo, che ben si abbina a vari tipi di piatti e può essere consumato sia crudo che cotto. Le giuggiole si prestano molto bene all’essiccazione, ad essere candite o trasformate in confetture, sciroppi o liquori. La tradizione popolare contadina ha tramandato molte ricette di dolci a base di giuggiole”.
Un piccolo paese in provincia di Padova ha eletto la giuggiola come frutto simbolo del proprio territorio: si tratta di Arquà Petrarca, comune veneto adagiato sui verdi pendii dei Colli Euganei, dove si coltivano piantagioni di giuggiole, alle quali è stata dedicata una grande festa che si tiene ogni anno all’inizio del mese di ottobre.
<<I frutti del giuggiolo sono l’ingrediente principale di un’antica ricetta”, sono sempre parole di Radames Garoia e Nivalda Raffoni, “utilizzata per preparare un particolare liquore ancora oggi conosciuto con il nome di “Brodo di Giuggiole”. “Andare in brodo di giuggiole”significa essere estremamente felici, come in uno stato di ebbrezza che si raggiunge bevendo il liquore a base di giuggiole appassite. Si tratta di un infuso di giuggiole e frutti autunnali, come uva Moscato (muscatël), mele cotogne (al mél cudogni), scorze di limone, uva e melograne (melgarné). A fine lavorazione si ottiene un succo liquoroso molto dolce, il brodo di giuggiole, appunto>>.
Su questa pianta, sicuramente molto antica, sono sorte tante leggende! Una, per esempio, la troviamo nell’Odissea di Omero. Nel libro IX, si narra che Ulisse e i suoi uomini, portati fuori rotta da una tempesta, approdarono all’isola dei Lotofagi (secondo alcuni l’odierna Djerba), nel nord dell’Africa. Alcuni dei suoi uomini, una volta sbarcati per esplorare l’isola, si lasciarono tentare dal frutto del loto, un frutto magico che fece loro dimenticare mogli, famiglie e la nostalgia di casa. È probabile che il loto citato Omero sia proprio lo Zizyphus lotus, un giuggiolo selvatico, e che l’incantesimo dei Lotofagi non fosse provocato da narcotici ma soltanto dalla bevanda che si può preparare con le giuggiole.
Gabriele Zelli
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