Le zirudële di Ermanno Vallicelli

Di recente è stato presentato con successo il libro Zirudële di Ermanno Vallicelli. L’iniziativa si è tenuta presso il Circolo Democratico Forlivese di via Maroncelli. Nell’occasione il bel salone dello storico edificio si è riempito per ascoltare gli interventi dell’autore, di Alvaro Attiani e di Arturo Marezzi, rispettivamente presidente di CNA Pensionati Forlì-Cesena e del Circolo Democratico, e di Gabriele Zelli, mentre Radames Garoia ha letto diversi componenti poetici contenuti nel volume.

Di seguito si riporta la prefazione di Gabriele Zelli alla pubblicazione edita da Edit Sapin e ottimamente stampata dalla Tipografia Valbonesi.

Sl’è nota us fará dè! (Se è notte si farà giorno!)

I componimenti poetici in dialetto romagnolo di Ermanno Vallicelli pubblicati nel volume “Zirudële”, sono da considerare un ulteriore sforzo per mantenere vivo il dialetto romagnolo. L’autore si è avvicinato a questa forma espressiva da poco e senza pretese letterarie, semplicemente per mantenere impegnata la mente e per trasmettere alle tre nipoti la passione per il vernacolo. È stato un esercizio proficuo per ricordare il passato con la consapevolezza di aver condotto una vita operosa, con soddisfazione nonostante non siano mancati i momenti difficili e dolorosi. Per queste ragioni la CNA Pensionati Forlì-Cesena, presieduta da Alvaro Attiani, ha deciso di sostenere Ermanno Vallicelli per dare alle stampe le sue zirudële affinché potessero essere condivise con il maggior numero di amiche e amici, nonché con i cittadini forlivesi.

Quanto contenuto nel libro di Vallini ha stimolato diverse considerazioni.

La reclusiò da virus (La reclusione da virus)

La data non è stata ancora fissata ma probabilmente nei prossimi giorni, dopo che nel mondo si sono contati ben sette milioni di morti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità proclamerà la fine dello stato pandemico internazionale e decreterà la fine del Covid 19 come emergenza pubblica, dichiarata come tale il 30 gennaio 2020. In Italia, secondo i dati di marzo 2023, il tasso di occupazione delle terapie intensive è ormai all’uno per cento e quello di occupazione dei reparti in continuo calo (poco più del quattro per cento) e tra questi ricoverati più della metà lo sono per altre patologie e non solo per Covid. Si può quindi tirare un sospiro di sollievo, anche se l’esperienza vissuta ci fa dire che non bisogna farsi trovare impreparati di fronte ai focolai di infezioni presenti nel mondo nel malaugurato caso dovessero espandersi. 
Quelli della pandemia sono stati però mesi molto difficili, in particolare quelli che hanno coinciso con la maggior diffusione del virus e con il periodo in cui è stato decretato il confinamento nelle proprie abitazioni. Di questo periodo si trova ampio segno nelle zirudële di Ermanno Vallicelli; un arco di tempo che per il nostro autore è coinciso anche con una situazione familiare estremamente dolorosa. Era neccessario perciò reagire, risollevarsi, non farsi sopraffare dalla malinconia e Vallicelli lo ha fatto anche componendo quanto viene pubblicato nel libro e, considerato che si è dimostrata una buona terapia, ha continuato e continuerà anche in futuro a scrivere testi poetici in dialetto romagnolo con la rima in ottonari. 

Il dialetto romagnolo è ruvido…

Dalle pagine firmate da Ermanno Vallicelli emerge la natura della Romagna: un territorio diviso tra la velocità della via Emilia e la profondità della “bassa” pianura, tra l’individualità collinare e appenninica e la poesia che suscita la costa Adriatica. Dalla lettura delle zirudële emerge la vivacità linguistica del dialetto che sfugge alle definizioni amministrative dei territori, mutando al mutare degli spazi umani, con soluzioni originali e pungenti. Una lingua che è stata cara a molti e importanti personaggi del mondo della cultura, della storia e della politica. Il suo uso parlato e scritto fa sostenere ad Aldo Spallicci (1886-1973), in una lettera inviata all’amico scrittore di Cesenatico Marino Moretti (1885-1979): “Mi par di essere più vicino alla gente che lavora”. Il dialetto era la lingua dei cittadini e dei contadini, era la lingua con la quale si raccontava il vissuto e l’umano, era la lingua che colorava emozioni e visioni, con un particolare impianto lirico. Spallicci definì il dialetto “una delle armi più tenaci per la difesa della tradizione” e nella sua forte declinazione romagnola lo indicò come “ruvido”. “Il dialetto romagnolo è ruvido – scrive – le sue radici latine e barbariche assai lontane ormai nel tempo; si tratta infatti di una lingua particolare, da parlare in casa, da parlare da podere in podere, da una siepe all’altra, refrattaria, nel suo scontroso pudore, ad essere usata con estranei come invece avviene per la parlata romanesca e veneziana”. Una lingua dunque fortemente legata al territorio umano e sociale, al quotidiano, agli aspetti più naturali della giornata romagnola. Una lingua che rende con immediatezza umori e passioni, azioni ed emozioni dei romagnoli. Punge il dialetto e racconta della vita di genti ancorate ai propri territori. Così come ha saputo fare Ermanno Vallicelli.
Per cui chi vuole cimentarsi nello scrivere testi di commedie dialettali o racconti, oppure a comporre poesie o zirudelle, deve partire dal presupposto che la terra viene arata da moderni e tecnologicamente attrezzati trattori e non più dai buoi. Deve essere conscio che le osterie con le ragnatele sulle travi del soffitto sono state sostituite da luccicanti luoghi di ritrovo dove decine di giovani si riuniscono per consumare il “rito” dell’aperitivo. E Vallicelli lo ha saputo fare con naturalezza privilegiando come argomento per i suoi componimenti gli avvenimenti di tutti i giorni in molti casi con accenni al passato.

Cun acqua e ciacar un’s fa farteli” (Con acqua e chiacchiere non si fanno frittelle)

Di tanto in tanto Ermanno Vallicelli fa uso nelle sue zirudële di modi di dire romagnoli e lo spiega sottolineando il fatto che è innamorato del vernacolo e che seguendo la saggezza dei suoi motti ha saputo superare i fatti della vita con più serenità. In particolare ne cita tre: “Sl’è nota us fará dè” (Se è notte si farà giorno), “Cun acqua e ciacar un’s fa farteli” (Con acqua e chiacchiere non si fanno frittelle), “Ai sumèr un si fa mai sera” (Ai somari non si fa mai sera). Da queste piccole perle di saggezza Ermanno Vallicelli ha tratto spunto per affrontare con “realismo le situazioni, belle o brutte che siano, tenendo conto della realtà, altrimenti non si risolverà mai nulla”.
In effetti i modi di dire e i proverbi sono uno dei temi privilegiati per scavare nell’immaginario romagnolo, nelle sue pieghe più autentiche e affascinanti, la maniera per indagare in profondità e con vibrante ironia nella sensibilità, nella lingua e nella suggestione popolare. Dai proverbi e dai modi di dire, come hanno dimostrato studiosi come Aldo Spallicci, Umberto Foschi (1916-2000) e più recentemente il forlivese Mario Maiolani (1933) che ne ha catalogati circa 1.800, si ricavano pagine coinvolgenti, nelle quali come in uno specchio si riflettono le immagini e gli umori di una società in parte abbandonata, ma ancora viva. Luoghi della saggezza popolare, i proverbi e i modi di dire descrivono l’anima e la coscienza di contadini e cittadini che cercano consolazione e motivazione in questi concetti sintetizzati per affrontare al meglio il vivere quotidiano. La ruota del tempo, in particolare nella vita del contadino, era scandita dai proverbi e dai modi di dire. Ora legati alle stagioni, ora al ciclo liturgico, ora all’interno della famiglia, ora all’esterno sociale; insomma accompagnavano tutte le tappe dell’esperienza vissuta. Tramandati oralmente di generazione in generazione i proverbi, in particolare, riflettono la millenaria esperienza e il buon senso della gente comune e ne rivelano l’evoluzione sociale economica, religiosa e politica, le superstizioni, le credenze, le tradizioni, i riti, gli ideali e gli affetti. La rima e l’assonanza ne hanno favorito la permanenza nella memoria storica. Non c’è traccia della vita romagnola che non trovi domande o risposte nei proverbi e nei modi di dire. Non c’è umore o passione, evento pubblico o privato che non si accompagnasse a versi popolari sintetici, realistici ed astratti. Il quotidiano civile era attraversato da queste formule che risuonavano nelle abitazioni e nelle osterie, come nei luoghi sociali e intellettuali e ne emerge una società vivace e colorata, dinamica, ospitale, aperta. Su tutto appare, per usare parole di Aldo Spallicci, “un tenace attaccamento non tanto all’astratta libertà quanto alle proprie civiche e individuali libertà”.

La câmbra d’ ca (La camera di casa, ovvero quando la vita ruotava attorno alla casa)

Ermanno Vallicelli fa parte di quella generazione che ha vissuto e convissuto con l’ultimo periodo della civiltà contadina, quando la vita ruotava attorno alla tipica casa di campagna, che per struttura architettonica nel forlivese è diversa dal cesenate. Ma in entrambe il fulcro, il cuore pulsante dell’edificio e della famiglia, era la cucina, generalmente molto spaziosa in considerazione del fatto che i nuclei familiari erano molto numerosi. La “câmbra d’ ca”, la camera di casa, dove, per tutta la giornata, il fuoco era praticamente sempre acceso e vi si faceva qualcosa. Era il luogo dei vari lavori e del gioco serale delle carte, della sgranatura invernale del granoturco fatta con i sacchi di pannocchie buttati a terra, della scelta dei fagioli da seme, dei giochi dei bimbi e delle orazioni, e “rusêri”. Nella stessa stanza si tenevano sul cassettone i ricordi dei familiari scomparsi, assieme alle immagini sacre, quasi come per gli antichi Lari (le divinità romane della famiglia, venerate specialmente nel culto privato presso il focolare domestico). 
Chi è della generazione di Vallicelli ricorderà lo “scaranôn de non”, il seggiolone del nonno, che era un segno gerarchico d’autorità e di rispetto; lo s-ciadùr, il mattarello o assottigliatore per la sfoglia, da cui le proverbiali tagliatelle; la “màtra”, o madia, il cassettone della cucina, spesso pieno di ogni ben di Dio, a cominciare dalla farina e dal pane; “e prit”, lo scaldaletto, e “la söra”, il recipiente in terracotta che, pieno di brace, si appoggiava nel piano basso dello scaldaletto. Entrambi questi ultimi due strumenti facevano pensare maliziosamente, nella fantasia popolare, un tempo anticlericale e sarcastica verso le cose del clero e della fede, al fatto che univano beffardamente sotto le lenzuola ciò che era diviso per norma di religione e di costume. 
Così pure si ha memoria di mestieri ormai scomparsi o praticati in modo completamente diverso: i rudarên, gli arrotini; i zavatén, i ciabattini; i mdôr, i mietitori; i batdùr, i battitori o trebbiatori; al spidadòri, le spigolatrici, i stradên, gli stradini o cantonieri; i macharén, gli spaccapietre.

Qui d’la bicicleta (La passione dei romagnoli per la bicicletta)

La prima zirudela che apre il libro ha come titolo “Qui d’la bicicleta” che lascia chiaramente trasparire la passione dei romagnoli per questo mezzo di trasporto e ci fa ricordare i personaggi della nostra terra che hanno esaltato l’essenza, la praticità, la modernità della bicicletta, a partire da Olindo Guerrini (1845-1916) e poi Aldo Spallicci, Renato Serra (1884-1915) e così via.
Il 30 luglio 1897, una domenica, lo scrittore romagnolo Alfredo Oriani (1852-1909) partì da solo in bicicletta da Faenza per affrontare in una decina di giorni un viaggio di circa un migliaio di chilometri. Dalla città manfreda arrivò a Forlì, salì verso Santa Sofia e poi si diresse a La Verna, Camaldoli, Pioppi, Siena, Pisa, Bologna per ritornare a Faenza. Un percorso che oggi non spaventa nessun ciclista, in considerazione dello stato delle strade e delle biciclette che possono essere utilizzate. Alla fine dell’Ottocento le condizioni erano però molto diverse con percorsi su vie sterrate, piene di buche, dissestate e si poteva utilizzare un velocipede ancora grezzo, seppure fosse stato inventato nel 1817. Fu il barone tedesco Karl von Drais, in seguito ad una carestia in cui morirono la maggior parte dei cavalli, che all’epoca erano il mezzo di trasporto più importante, a pensare ad un veicolo che permettesse alla persone di spostarsi velocemente.
Così descrive sul libro “La bicicletta”, edito nel 1902, la sua partenza Alfredo Oriani: “La via Emilia mi è apparsa dinanzi larga dritta polverosa: il sole vi cadeva accecante, non una bava di vento: silenzio nei campi tutti coperti di sole, giacché le ombre stavano ancora rannicchiate sotto gli alberi. Per la strada, lungo i margini, veniva qualche figura lontana”. (…) “È il primo viaggio vero della mia vita, intrapreso così senz’altro scopo che viaggiare”.
I tempi del viaggio e della narrazione in Alfredo Oriani coincidono con una situazione di limite: il passaggio del secolo. In quegli anni di transizione, le nuove idee novecentiste vanno via via sovrapponendosi a quelle dell’Ottocento, tra progressive incertezze, nel lento e inesorabile distacco da una società arcaica ad una più moderna con la seconda fase della rivoluzione industriale, la diffusione nelle città della corrente elettrica e l’affermarsi della fotografia, del cinema, della bicicletta e delle prime automobili.
Vallicelli nel ricordare le sue uscite in bicicletta, con l’immancabile gruppo di amici, sorretto dalla vigoria di una stagione che lo vedeva più giovane e capace di affrontare percorsi anche molto impegnativi oggi constata invece l’inesorabile passare del tempo e dover fare i conti con l’incedere degli anni, pur restando l’interesse e l’attenzione per la bicicletta.

E bal cum l’era (Il ballo com’era una volta)

Diverse zirudële di Ermanno Vallicelli raccontano dei momenti di svago, delle giornate passate al mare, dell’innamoramento per le Dolomiti e della passione per il ballo. A proposito di balli l’autore scrive che erano meglio i lenti per poter abbracciare la ragazza di turno, senza disdegnare però i valzer, le polke e le mazurke romagnole, che presupponevano e presuppongono che i ballerini si stringano fortemente. In effetti il ballo è stata una grande passione dei romagnoli, che si è un po’ stemperata e modificata con il prevalere dei balli di gruppo. 
Icilio Missiroli (1898-1979), insegnante, scrittore, autore di commedie dialettali, nonché sindaco di Forlì dal 1956 al 1965, nel libro “Èria ‘d Rumâgna”, pubblicato un centinaio di anni fa, scrive: “In ogni momento, in ogni occasione i Romagnoli sono disposti a ballare. Si ballava per un fidanzamento o un matrimonio, alla fine della falciatura delle erbe o della mietitura, nelle stalle, l’inverno, o, d’estate, nelle aie. Bastava poco: una fisarmonica (“un urganên”) o una ocarina. I più fortunati potevano avere, oltre la fisarmonica, anche un clarino e un violino. Ma c’erano anche le vere feste, i veglioni ai quali partecipavano orchestre famose. Più di tutte quella di Carlo Brighi (1853-1915), “e’ Zaclên” (anatroccolo, soprannome del noto musicista al quale si deve la nascita della musica popolare romagnola: tutto quello che oggi chiamiamo “liscio” con un termine che non rende giustizia al genere ma che dà il senso a un fenomeno musicale ndr). Brighi che coi suoi valzer trascinava i ballerini fino alla frenesia. (…) Del resto, quando si era in ballo”, scrive ancora 
Missiroli, “tutti dovevano ballare: “o bal, o scussê e’ cul” (o ballare, o scuotere, dimenare, il sedere) per seguire al meglio il ritmo frenetico dell’orchestra fra l’urlare dei ballerini entusiasti. C’era grande affollamento, era quasi impossibile di muoversi nella folla, ma “csa s’ fal a nô la chéica, basta ch’u s’ bala!” (che cosa ci importa della calca, della ressa, purché si balli!) si diceva. E alla meglio si ballava”. 

I republichen (ovvero la passione per la politica)

Alcune zirudële di Ermanno Vallicelli sono dedicate alle vicende politiche dei nostri tempi. In una di queste lascia trasparire un certo attaccamento al movimento repubblicano che dalle nostre parti ha avuto un ruolo determinante per oltre 100 anni.
Molti studiosi hanno sostenuto che la Romagna ha sempre avuto una costante aspirazione al nuovo e che ciò è stata una costante negli ultimi due secoli divenendo la punta avanzata, per fatti storici e politici dal Risorgimento in poi, delle aspirazioni di democrazia, di ascesa sociale e di uguaglianza. Furono aspirazioni talmente diffuse da fare della nostra Romagna la zona italiana più incline all’estremismo; e ad un tempo talmente contrapposte fra quella democratica e sociale del repubblicanesimo di emanazione mazziniana e quella classica di una rivoluzione socialista destinata a compiere la svolta decisiva nella vita dell’umanità, tanto da dividere più che altrove le prospettive di cambiamento. Alle sue origini il fascismo ebbe maggiori difficoltà di affermazione, e vent’anni dopo, nella sua estrema configurazione con la Repubblica Sociale nel pieno dell’occupazione germanica, si trovò totalmente isolato in una società che parteggiava per il moto resistenziale delle forze politiche rinascenti e si riconosceva nella guerra di risalita e di liberazione della penisola condotta dai soldati dell’Esercito inglese e americano che arrivarono in Romagna nell’estate 1944 e liberarono Forlì il successivo 9 novembre. 
Il ritorno alla libertà ripropose immediatamente la divisione politica fra i partiti d’ispirazione democratica, più facilmente vicini dopo l’avvento della Repubblica nonostante origini e storie diverse, e anche opposte, come il PRI nei confronti dei liberali, dei democristiani e dei socialdemocratici, e i settori che si identificavano con l’esperienza e il modello sovietico, soprattutto il PCI. La Romagna si trovò così nuovamente divisa nelle prospettive di cambiamento, anche laceranti. Invece, anno dopo anno, decennio dopo decennio, tutto si è modificato con la più straordinaria ascesa economica e sociale che il mondo sviluppato e la Romagna avessero mai visto e ad un tempo con la piena affermazione dei valori di libertà come cardine basilare di ogni ulteriore ascesa. 

E’ zircul democratic forlives (Il Circolo Democratico Forlivese)

Si può pensare che per Ermanno Vallicelli l’appartenenza al Circolo Democratico Forlivese sia la conseguenza di più fattori che vanno dal sentirsi parte attiva della comunità locale e nel contempo avere un luogo dove, come scrive, si può praticare la socialità. Inoltre appartenere al sodalizio più vecchio di Forlì è anche titolo d’onore perché significa riconoscersi in una storia che ha più di 140 anni di vita. Com’è noto nel corso degli ultimi mesi del 1882 un gruppo di forlivesi decise di costruire un comitato di soccorso per aiutare le popolazioni della Lombardia e del Veneto colpite nell’autunno di quell’anno da una eccezionale evento atmosferico quando, in seguito a forti e persistenti piogge, fiumi e torrenti strariparono “seminando stragi e rovine”. In tutt’Italia si manifestò una forte solidarietà nei confronti di coloro che avevano perso tutto a causa della violenta alluvione attraverso la raccolta di fondi, di vestiti e dando la disponibilità ad accogliere chi era rimasto senza casa. Si trattò di una mobilitazione corale che vide in prima fila i romagnoli con la costituzione di vere e proprie associazioni per fare in modo che l’attività di solidarietà fosse controllata e più incisiva. Alcune di queste realtà continuarono l’attività anche in seguito come il Circolo Democratico Forlivese, divenendo punto di riferimento dell’intera città per le attività ricreative. Fra i primi soci che aderirono al circolo ci fu anche Antonio Fratti (1845-1897), il patriota e poi parlamentare repubblicano che nel 1897 morirà a Domokos, dove era accorso per sostenere il popolo greco contro l’invasione dell’Impero turco. In seguito a questo tragico evento, che scosse tutta Forlì, il Consiglio direttivo diffuse un manifesto per ricordare Fratti “a quelli che verranno, perché l’imitazione del suo esempio” non sia un fatto sterile ma si manifesti nell’impegno quotidiano per la libertà.

E domani…

Ci aspettiamo altre zirudële che raccontino di noi con ironia e semplicità, con passione e fantasia perché “Sl’è nota us fará dè (Se è notte si farà giorno)”.

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Marco Viroli

Marco Viroli è nato a Forlì il 19 settembre 1961. Scrittore, poeta, giornalista pubblicista, copywriter, organizzatore di eventi, laureato in Economia e Commercio, nel suo curriculum vanta una pluriennale esperienza di direzione artistica e organizzazione di mostre d’arte, reading, concerti, spettacoli, incontri con l’autore, ecc., per conto di imprese ed enti pubblici. Dal 2006 al 2008 ha curato le rassegne “Autori sotto la torre” e “Autori sotto le stelle” e, a cavallo tra il 2009 e il 2010, si è occupato di pubbliche relazioni per la Fondazione “Dino Zoli” di arte contemporanea. Tra il 2010 e il 2014 ha collaborato con “Cervia la spiaggia ama il libro” (la più antica manifestazione di presentazioni librarie in Italia) e con “Forlì nel Cuore”, promotrice degli eventi che si svolgono nel centro della città romagnola. Dal 2004 è scrittore e editor per la casa editrice «Il Ponte Vecchio» di Cesena. Autore di numerose prefazioni, dal 2010 cura la rubrica settimanale “mentelocale” sul free press settimanale «Diogene», di cui, dal 2013, è anche direttore responsabile. Nel 2013 e nel 2014, ha seguito come ufficio stampa le campagne elettorali di Gabriele Zelli e Davide Drei, divenuti poi rispettivamente sindaci di Dovadola (FC) e Forlì. Nel 2019 ha supportato come ufficio stampa la campagna elettorale di Paola Casara, candidata della lista civica “Forlì cambia” al Consiglio comunale di Forlì, centrando anche in questo caso l’obiettivo. Dal 2014 al 2019 è stato addetto stampa di alcune squadre di volley femminile romagnole (Forlì e Ravenna) che hanno militato nei campionati di A1, A2 e B. Come copywriter freelance ha collaborato con alcune importanti aziende locali e nazionali. Dal 2013 al 2016 è stato consulente di PubliOne, agenzia di comunicazione integrata, e ha collaborato con altre agenzie di comunicazione del territorio. Dal 2016 al 2017 è stato consulente di MCA Events di Milano e dal 2017 al 2020 ha collaborato con la catena Librerie.Coop come consulente Ufficio Stampa ed Eventi. Dal 2016 al 2020 è stato fondatore e vicepresidente dell’associazione culturale Direzione21 che organizza la manifestazione “Dante. Tòta la Cumégia”, volta a valorizzare Forlì come città dantesca e che culmina ogni anno con la lettura pubblica integrale della Divina Commedia. Da settembre 2019 a dicembre 2020 è stato fondatore e presidente dell’associazione culturale “Amici dei Musei San Domenico e dei monumenti e musei civici di Forlì”. Da dicembre 2020 è direttore artistico della Fabbrica delle Candele, centro polifunzionale della creatività del Settore delle Politiche Giovanili del Comune di Forlì. PRINCIPALI PUBBLICAZIONI Nel 2003 ha pubblicato la prima raccolta di versi, Se incontrassi oggi l’amore. Per «Il Ponte Vecchio» ha dato alle stampe Il mio amore è un’isola (2004), Nessun motivo per essere felice (foto di N. Conti, 2007) e "Canzoni d'amore e di funambolismo (2021). Suoi versi sono apparsi su numerose antologie, tra cui quelle dedicate ai Poeti romagnoli di oggi e… («Il Ponte Vecchio», 2005, 2007, 2009, 2011, 2013), Sguardi dall’India (Almanacco, 2005) e Senza Fiato e Senza Fiato 2 (Fara, 2008 e 2010). I suoi libri di maggior successo sono i saggi storici pubblicati con «Il Ponte Vecchio»: Caterina Sforza. Leonessa di Romagna (2008), Signore di Romagna. Le altre leonesse (2010), I Bentivoglio. Signori di Bologna (2011), La Rocca di Ravaldino in Forlì (2012). Nel 2012 è iniziato il sodalizio con Gabriele Zelli con il quale ha pubblicato: Forlì. Guida alla città (foto di F. Casadei, Diogene Books, 2012), Personaggi di Forlì. Uomini e donne tra Otto e Novecento («Il Ponte Vecchio», 2013), Terra del Sole. Guida alla città fortezza medicea (foto di F. Casadei, Diogene Books, 2014), I giorni che sconvolsero Forlì («Il Ponte Vecchio», 2014), Personaggi di Forlì II. Uomini e donne tra Otto e Novecento («Il Ponte Vecchio», 2015), Fatti e Misfatti a Forlì e in Romagna («Il Ponte Vecchio», 2016), Fatti e misfatti a Forlì e in Romagna volume 2 («Il Ponte Vecchio», 2017); L’Oratorio di San Sebastiano. Gioiello del Rinascimento forlivese (Tip. Valbonesi, 2017), Fatti e misfatti a Forlì e in Romagna, vol. 3 («Il Ponte Vecchio», 2018). Nel 2014, insieme a Sergio Spada e Mario Proli, ha pubblicato per «Il Ponte Vecchio» il volume Storia di Forlì. Dalla Preistoria all’anno Duemila. Nel 2017, con Castellari C., Novara P., Orioli M., Turchini A., ha dato alle stampe La Romagna dei castelli e delle rocche («Il Ponte Vecchio»). Nel 2018 ha pubblicato, con Marco Vallicelli e Gabriele Zelli., Antiche pievi. A spasso per la Romagna, vol.1 (Ass. Cult. Antica Pieve), cui ha fatto seguito, con gli stessi coautori, Antiche pievi. A spasso per la Romagna, vol. 2-3-4 (Ass. Cult. Antica Pieve). Nel 2019, ha pubblicato con Flavia Bugani e Gabriele Zelli Forlì e il Risorgimento. Itinerari attraverso la città, foto di Giorgio Liverani,(Edit Sapim, 2019). Sempre nel 2019 ha pubblicato a doppia firma con Gabriele Zelli Fatti e Misfatti a Forlì e in Romagna volume 4 («Il Ponte Vecchio») e Forlì. Guida al cuore della città (foto di F. Casadei, Diogene Books). Con Gabriele Zelli ha inoltre dato alle stampe: La grande nevicata del 2012 (2013), Sulle tracce di Dante a Forlì (2020), in collaborazione con Foto Cine Club Forlì, Itinerario dantesco nella Valle dell’Acquacheta (2021), foto di Dervis Castellucci e Tiziana Catani, e I luoghi di Paolo e Francesca nel Forlivese (2021), foto di D. Castellucci e T. Batani. È inoltre autore delle monografie industriali: Caffo. 1915-2015. Un secolo di passione (Mondadori Electa, 2016) e Bronchi. La famiglia e un secolo di passione imprenditoriale (Ponte Vecchio, 2016).