La PAC del dopo 2020 è ancora lontana, ma è già iniziata ufficialmente la discussione con la comunicazione del Commissario Europeo per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale, Phil Hogan, all’Europarlamento nel novembre scorso.
La posizione del commissario è molto attenta agli equilibri generali, da parte nostra è opportuno rimarcare alcuni concetti.
La dotazione finanziaria della PAC non deve calare ancora (quella attuale vede un calo del 18% rispetto alla precedente).
La produzione di cibo è strategica per la difesa e l’economia degli stati.
Una politica agricola forte e condivisa è essenziale per preservare la biodiversità, qualità e disponibilità dell’acqua, funzionalità del suolo, stabilizzazione del clima, il paesaggio, vitalità rurale.
Negli ultimi 20 anni la capacità produttiva agricola è costantemente aumentata, mentre il valore aggiunto delle imprese è diminuito.
Ecco perché è necessario un aumento del budget UE.
Il settore primario ha un ruolo importante per quanto riguarda l’occupazione e il presidio dei territori rurali, altro motivo fondamentale per cui la filiera agricola va, non solo sostenuta, ma difesa da agenti devastanti quali mercati mondiali volatili, cambiamento del clima, polarizzazione dei centri di ricchezza, oligopoli tecnologici multinazionali, concorrenza sleale (lavoro, sicurezza, ambiente, tracciabilità, ecc.) inter ed extra UE.
Sono vere due cose: solo una forte e internazionale politica pubblica può aiutare, e solo se concertata con tutta la filiera agroalimentare. Dunque la PAC deve gestire un bilancio, deve anche essere integrata negli accordi sugli scambi internazionali.
Fortunatamente il valore aggiunto nella filiera agroalimentare coincide sempre più con la sostenibilità delle produzioni. Il boom del biologico ne è una testimonianza (1,5 milioni di ettari nella UE nel 2015).
Sarà opportuno continuare a investire nella distintività etica, ambientale, culturale essendo per il nostro paese fattore di successo sui mercati; indirizzare inoltre le politiche UE verso gli agricoltori attivi e il lavoro, escludendo le rendite, e puntare alla capacità delle imprese di interpretare i mercati nel lungo periodo.
L’Italia è un paese svantaggiato dal punto di vista agronomico: 2/3 del territorio è collinare, la pianura è fortemente antropizzata con un’alta densità della popolazione.
Nonostante il 23% del fatturato agroalimentare italiano sia prodotto da cooperative, l’aggregazione dei produttori è uno strumento ancora troppo poco praticato nel nostro paese. Per questo la cooperazione, impresa democratica radicata ai territori, che non delocalizza ma si internazionalizza, deve essere sostenuta sancendo una volta per tutte che l’aggregazione di migliaia di agricoltori non può essere assimilata a una multinazionale di capitali privati.
Da ultimo la ricerca, componente insostituibile per uno sviluppo sostenibile, va finanziata e organizzata adeguatamente: la base deve essere la ricerca pubblica per diffondere le opportunità a tutta la filiera e per creare il tessuto su cui innestare i progetti privati.
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