In gergo si chiamano “querele temerarie” e sono quei ricorsi al giudice (quasi sempre in sede civile) che puntano a far male al portafogli del giornalista o dell’editore. Temerarie perché scarsamente o per nulla fondate, ma di questo gli autori ben poco si preoccupano: è chiaro, molto spesso, il senso intimidatorio di questi atti. E’ come un cartello appeso davanti all’eventuale oggetto di un’inchiesta giornalistica: chi tocca i fili muore (o almeno rischia di perdere la casa e la rotativa). Articolo 21 e altre associazioni per il diritto all’informazione hanno recentemente recapitato alla presidente della Camera 120mila firme in appoggio alla trasmissione Report querelata da Eni e, appunto, contro le querele temerarie. Un randello sempre più usato e che è sicuramente tra i motivi (al pari dello scarso coraggio della stampa nostrana) se l’Italia è tra gli ultimi posti al mondo nella classifica della libertà d’informazione.
Querelare è l’atto più semplice e gratuito per tentare di stringere il bavaglio ai mass media. Ad ogni livello. E il danno per il querelato, anche se innocente, è sempre certo. A me è capitato di essere querelato (con corredo di cospicua richiesta di danni in denaro) semplicemente per aver riportato il giudizio negativo del segretario comunale – scritto nero su bianco negli atti di un consiglio comunale – sull’operato di un’agenzia di onoranze funebri appaltatrice di un servizio pubblico.
La rescissione del contratto era scaturita proprio da un articolo che riportava la protesta di un cittadino. Una storia banale e anche ridicola nella sua coda giudiziaria, che comunque è costata denaro e tempo prima di dissolversi in nulla. Si obietterà però che il principio della difesa dalla diffamazione a mezzo stampa è sacrosanto. Indubbiamente, ma deve pur esserci un punto d’equilibrio. Stabilire che chi querela deve versare una cauzione (e nel caso di infondatezza della causa la perde!) potrebbe essere un primo concreto passo nella giusta direzione.
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