Jacopo Rinaldini questa volta attraversa la zona Stadio
CESENA. Jacopo Rinaldini questa volta sale a bordo della sua prima auto per un immaginario viaggio in una zona di Cesena che lotta per mantenere la sua dimensione di borgata.
Eppure, son trascorsi anni, non pochi a dire il vero, ma la “Carolina” illumina le mie stanze buie con i suoi fanali tondi da animale meccanico, mitologico, goffo, dalle linee dolci e originali; sulle mie mani permane l’odore dei sedili in finta pelle, in “Skai”, marroni, piccoli, molleggiati, quasi fossero pensati unicamente per dei bambini piloti, minuti viaggiatori “in nuce” che corrono controvento a denti stretti.
Prima della “Faxian” Panda, la quale altro non è che un privilegiato punto d’osservazione della realtà, il primo mezzo che mi ha consentito di mutare in sogno un banale spostamento quotidiano attraverso i suoi finestrini dalle forme smussate, filtri trasparenti contro un mondo immateriale e costellato di troppi buchi neri, è stato il veicolo appartenuto dapprima a mia nonna e, successivamente, al mio nonno Curio, che non ha mai voluto separarsene, perché un ricordo, una traccia, della moglie scomparsa.
La memoria è l’unica cosa che può sostituire l’amore; immagino che per mio nonno la Fiat 850 Special color nocciola, la “Carolina” appunto, altro non fosse che un modo per continuare a camminare insieme, sul confine della vita, ogniqualvolta la chiave d’accensione veniva girata nel cruscotto di plastica nera e lucidissima.
Oggetto metafisico oltre il tempo in grado di unire ciò che rimane a ciò che più non è.
Mi muovo all’interno di una forma di paganesimo scomparso, apro la portiera lato passeggero: Curio è lì, il motore acceso scoppietta con una cacofonia di stridii che rammenta una sinfonia di musica futurista. Un’automobile mi sta traghettando in una realtà scomposta, decostruita: partiamo senza dirci nulla, anche volendo non ci riuscirei, dal momento che per un frammento infinitesimale di tempo rivivo i viaggi della mia infanzia. Giro lievemente il capo e mi rivedo, bambino, seduto sul sedile posteriore. Rido e piango contemporaneamente.
Nonno Curio, segui le mie indicazioni: ti voglio indicare la strada che conduce ad un luogo particolare, un poco abbandonato oggigiorno, ma che racchiude il senso di tutto il mio scrivere, delle mie ricerche al di là del mare, del girovagare alla ricerca di una dimensione popolare e di borgata.
Una mano sulla spalla, si parte: ingrana la marcia. La destinazione? Via del Mare, Cesena.
Un saluto allo Stadio, al chiosco di piadine, con la punta dei capelli sfioro le chiome degli alberi: avverto la vita, la vedo sulle facce di quei bambini che stanno rincasando da scuola; tu cosa provi?
Ora, il negozio di frutta e verdura è gestito da un ragazzo egiziano, il quale sta facendo di tutto per tenerlo aperto: mastica una lingua per noi incomprensibile, però sta salvando un pezzo importante di questa lingua d’asfalto ignorata e bistrattata.
Di fronte al verduraio, l’elettrauto. Trascorre le sue giornate perennemente seduto sulla sedia di plastica bianca oramai ingiallita dal tempo. Osserva il tramestio generato dalle auto che passano e confabula tra sé e sé.
Il cielo è sereno. Ascolta: dal sottopasso fuoriescono delle parole confuse. E’ un padre che redarguisce la propria figlia, la quale non presta assolutamente attenzione alle sue parole: anzi, pesta ancor più forte sui pedali della piccola bicicletta bianca e rossa a cui hanno, da poco, smontato le rotelle.
Osserva i mattoni di quei condominii: sono i mattoni con cui è costruita la storia dell’umanità. Ci vedo la lotta di classe, il diritto alla casa, i panni stesi, la speranza e l’afflizione. E’ una Cesena che si sta sgretolando.
Affondo nei sedili della nostra 850 Special. Tiro giù il finestrino e lancio fuori i versi che trattengo tra le dita, che vadano a posarsi sul marciapiede e qualcuno, passandoci sopra, se li porti a casa, ritrovandoseli sotto la suola delle scarpe.
Voglio solo aggrapparmi ad un filo d’aria
farmi polvere,
volare senza forma
sopra i tetti delle mie periferie,
città di cani e mattoni rossi,
popolari,
povere,
familiari.
Edifici vetusti,
fiori di cemento,
odore dolciastro
che si respira all’ingresso di androni gialli,
borse della spesa da cui emergono ciuffi di sedano,
biciclette rosa da donna,
la bottega chiusa di un pittore locale.
Pali della luce senza più vernice
su di loro croci di ruggine;
Gesù vive al terzo piano.
Babele di idiomi
uno stadio vecchio,
crepita il fuoco,
pantaloni lisi come i miei,
un tram da qui non passa;
muoio e rinasco ad ogni respiro.
Gira la chiave, spegni il motore. Addio nonno Curio, comunicheremo attraverso i silenzi, di notte, tra le stelle.
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