Il jihadista che è in noi

Talk show, editoriali e commenti nei social network sono stati monopolizzati nelle scorse settimane dall’episodio dell’aggressione di un bambino senegalese  ai danni di una compagna di classe italiana. A scatenare la furia del piccolo africano di religione islamica, secondo le ricostruzioni giornalistiche del primo giorno, sarebbe stata l’ostentazione da parte della ragazzina di una catenina con la croce. Dopo averla colpita alle spalle, riportano ancora le cronache, il senegalese avrebbe minacciato ulteriormente la sua vittima se non avesse smesso di indossare provocatoriamente il crocefisso. E solo l’intervento della madre della ragazzina avrebbe messo fine alla vicenda, poi denunciata ai carabinieri. Nel giro di un giorno la versione è stata completamente smentita. Intanto la minaccia è stata riportata solo dalla madre. Il ragazzino, appena giunto in Italia, non parla italiano. Non ha problemi di integralismo religioso, tanto che trascorre i pomeriggi in parrocchia. Mentre i carabinieri tentano di sbrogliare il caso, i docenti della scuola (e il padre) testimoniano che tra i due protagonisti della storia c’erano già stati screzi. Tutto lascia presupporre una banale lite tra bambini, gonfiata secondo la logica dello “scontro di civiltà”. Ancora una volta una notizia “saporita” al quale il mondo dei media non ha saputo resistere. Poi, fortunatamente, alcuni giornalisti coscienziosi hanno compiuto un lavoro di verifica. Ma il “veleno” del jihadista travestito da bambino ha già fatto breccia nei social network ed è diventato il fatto che conferma gli stereotipi.

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Emanuele Chesi

Emanuele Chesi è capo della redazione del Resto del Carlino di Cesena. Per Romagnapost scrive di media, in particolare del rapporto tra informazione e politica, e di tutto quello che gli viene in mente.