Ruggero Milandri vive nella sua natale Meldola, ma è senza ombra di dubbio un cittadino del mondo; il fotografo romagnolo ha viaggiato per tutta la sua vita, dall’Egitto al Perù, dal Canada, dove ha documentato la costruzione di iglù, alla Nuova Guinea dove osservò usanze, costumi e stregonerie di una tribù cannibale, tra cui il fotografo fu accolto negli anni settanta, affiancato da una guida locale.
La sua mostra ‘Meldola, un archivio da toccare. Una storia in 30.000 foto’ resterà aperta fino al sette aprile presso la chiesina ex-ospedale, a due passi dalla piazza principale del paese.
Milandri mi accoglie nel suo studio, un piccolo appartamento nel centro di Meldola: memorabilia, attestati e stampe d’epoca, fotografie, collezioni di oggetti inconsueti, tra cui meteoriti e souvenir per nulla classici di viaggi in Egitto, Perù ed Etiopia. Libri di proprietà di famiglia risalenti al Settecento, diverse macchine fotografiche che, spuntando tra poltrone, scaffali e scrivanie, tradiscono come Milandri trascorre le sue giornate. L’artista meldolese scatta immagini senza tregua, un’attività che è quasi un’ossessione per lui che fin da piccolo osserva la madre dilettarsi di fotografia.
Il fotografo romagnolo ha digitalizzato il suo archivio, un’opera titanica se si pensa che stiamo parlando di un catalogo di 36.000 immagini. Non tutte le fotografie sono di Milandri, alcune sono state scattate da altri ma da lui trovate o acquistate: si tratta di una vera e propria mania da collezionista, per cui Milandri raccoglie, cataloga e conserva immagini che diventano così patrimonio pubblico.
E’ una ricchezza che emoziona tutti: non solo l’adulto che rivede la sua infanzia, i suoi luoghi, i suoi amici e abitudini giovanili, ma anche le generazioni future, che, incuriosite, familiarizzano con un passato quasi esotico, ma proprio per questo attraente, perché proposto in un linguaggio che è da loro facilmente comprensibile.
Non c’è dubbio che la digitalizzazione permetta il recupero e la conservazione di un archivio, in questo caso, che potrebbe andare facilmente perduto, considerando che molte immagini risalgono agli anni trenta, quaranta, cinquanta e perciò presentano già alcuni segni di deterioramento.
Al centro della chiesina ex-ospedale è stato posizionato un tavolo digitale che il visitatore può facilmente consultare: l’archivio fotografico è stato suddiviso in varie cartelle tematiche, basta un click per aprirle e osservare immagini da ingrandire o restringere a proprio piacimento. Ogni fotografia che appare sul tavolo digitale è poi immediatamente proiettata sul muro sovrastante l’ingresso.
Spazio e tempo interagiscono senza soluzioni di continuità; le immagini appese per tutto il perimetro della chiesa ci mostrano corridori mentre passano per Meldola e vengono estemporaneamente benedetti dal parroco, bellissime donne, dalla semplice e raffinata eleganza, che sorridono all’obiettivo fotografico mentre passeggiano tra cartelloni pubblicitari. Sono immagini che confessano un’Italia familiare, radicata su abitudini territoriali, ma al tempo stesso curiosa e attratta dalle novità oltreoceano, un’Italia che guarda al mondo in espansione.
Milandri fotografa sia a colori sia in bianco e nero, ma per l’occasione le immagini che il pubblico può osservare senza ricorrere al catalogo sono esclusivamente in bianco e nero; c’è un che di nostalgico nell’aria, quasi come se certe immagini siano collezionate nel tentativo di tenere in vita un tempo che potrebbe non esistere più.
La mostra è un evento collettivo: meldolesi e non si dilettano a sfogliare il catalogo. Quando vado io, il tavolo dell’archivio è affollato di gente che aspetta il proprio turno per cliccare su ciò che più le interessa. L’arte è per tutti: tutti amano contemplare memorie in forma di fotografie, tutti amano chiacchierare tra amici di fronte ad un’immagine da cui scaturiscono pensieri e riflessioni, tutti amano fantasticare su un tempo di cui non sono stati protagonisti e su cui inevitabilmente proiettano romantiche visioni.
Il lavoro di Milandri non è esclusivamente fotografico: certo, la macchina è il suo mezzo espressivo ed è insostituibile nell’essere lo strumento d’indagine di un reporter che ha dedicato un’esistenza intera all’arte di documentazione fotografica. Ma le immagini di Milandri sono anche testimonianze antropologiche che mettono in luce l’affascinante e complessa relazione del fotografo con l’oggetto della sua inchiesta. Ogni fotografia è un racconto che accenna a usanze lontane: e così, per esempio, lo spettatore viene a conoscenza dei riti del taglio della testa praticati tra tribù cannibali della Nuova Guinea; Milandri fotografa scheletri di crani con cui gli uomini dormono, perché si pensa che il sapere dei loro antenati possa passare da testa a testa. Esistono poi anche vari riti di iniziazione per cui il ragazzo della tribù deve dormire tre notti con il capo del nemico tra i genitali per poter diventare adulto.
Milandri mi racconta moltissime altre storie, ma come dice lui stesso: ‘Certe cose bisognerebbe vederle’.
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