ED: Tema ricorrente nella tua opera (parlo per esempio dei video su YouTube sull’idiozia del genio o quello dedicato a ‘I Canti del Caos’ di Antonio Moresco) è quello dell’apparenza: la tua esortazione ad alzare il ‘velo di Maya’ per analizzare la realtà nei suoi basilari meccanismi è incalzante. La superficie offuscherebbe l’essenza che si trova in profondità, o meglio, che appare chiara solo a uno sguardo più attento. Un libro che non è un libro, l’idiota che in realtà è un genio. Perché? E’ il tuo un approccio metafisico, che vede ‘oltre la fisica’ o un ammonimento alla superficialità dell’uomo, che nel risolvere il puzzle vuole solo incastrare l’ultimo tassello e non è invece concentrato su come i vari pezzi si incastrano tra loro?
RM: Nel mio pensiero non c’è nessuna metafisica; ho una visione totalmente immanente del mondo. Ma penso che questo mondo totalmente immanente, questo mondo in cui –come si lamentano alcuni – “è tutto qui” sia di una complessità, di una ricchezza, di una bellezza che superano qualsiasi immaginazione umana. Una complessità che non è lecito ignorare. Per questo ogni giudizio frettoloso, ogni parola che pretende di porre fine ad una discussione mi fa l’effetto di una minuscola bestemmia. È come se, per la maggior parte del tempo, noi vivessimo ignorando (o fingendo di ignorare) quanto sia ricca e complessa la realtà. Viviamo, secondo me, come se fossimo personaggi dei fumetti, come fossimo dentro ad un cartone animato, se mi passi l’espressione.
ED: Mi piacerebbe farti una domanda sul significato di una tua affermazione che mi è parsa un forte stimolo di riflessione; ‘quando ci sono le mie poesie ci sono anch’io lì’. È un’espressione che accenna alla sacralità della presenza, all’autore come padre e all’autonomia delle poesie come creazioni che, in caso, potrebbero anche presentarsi da sole.
Perché ci sei anche tu? La tua presenza ha a che fare con la paura che certe composizioni possano essere fraintese in una babele di significati e interpretazioni? O, ritornando al discorso propedeutico, è una presenza che rimanda alla necessità di contestualizzare e introdurre l’ascoltatore alla tua opera attraverso lo sguardo privilegiato dell’autore stesso?
RM: Tutte queste cose a cui hai accennato sono giuste. Anzi, queste cose riassumono, probabilmente, la mia concezione della poesia. Dovendo procedere con ordine, direi così: le poesie sono fatte di parole. E le parole sono essenzialmente, naturalmente, biologicamente, antropologicamente, storicamente un fatto vocale. Anzi, le parole sono voce, espressione del volto e gesti assieme. Questo nella loro origine, da un punto di vista -appunto- antropologico, storico. Sappiamo tutti che la parola scritta è venuta molto tempo dopo.
Dunque per me la poesia è un’azione che il corpo compie; mentre la pagine scritta è un documento, un supporto per la memoria. Esattamente come la musica è quella cosa che esce dagli strumenti, quella cosa che i musicisti “fanno”. Mentre lo spartito è soltanto un documento che serve ai musicisti per sapere cosa fare (nel caso la memoria non sia loro sufficiente). Questa è il prima ragione per l’importanza che attribuisco alla mia presenza fisica.
Secondo: ogni poesia ha un senso (salvo rare eccezioni). È verissimo che una poesia non è riducibile al suo significato, alla sua parafrasi; è verissimo che nella poesia c’è un sovrappiù di intensità espressiva non-verbalizzabile. Ma è altrettanto vero che, per arrivare a questo sovrappiù, serve la comprensione testo, serve il senso. Cioè, per dirla in metafora: la pietra focaia non scalda, non illumina e non arde: non è –infatti- fuoco, ma una semplice pietra. Però per arrivare ad accedere il fuoco serve la pietra focaia.
Introdurre una poesia prima di leggerla in pubblico, per me, è semplicemente indispensabile. Per un fatto elementare. La poesia è la forma d’arte più rapida al mondo. Una poesia dura, in media, un minuto. Per cui occorre che l’ascoltatore sappia di cosa si sta parlando fina da subito. Se impiega 30 secondi solo per capire quale sia l’argomento, si è già “perso” metà dell‘opera. Una poesia non è un romanzo di 500 pagine, in cui ci si può permettere il lusso di far vagare il lettore nella nebbia per tutto il primo paragrafo (o il primo capitolo).
Queste osservazioni, per me, sono paragonabili ad assiomi, verità auto-evidenti. Eppure, a quanto ho visto, sono estremamente impopolari fra i miei “colleghi”.
ED: Walter Valeri ti ha descritto come un nuovo Cecco Angiolieri? Ti ci vedi in questo paragone? In che cosa vi sareste potuti assomigliare?
RM: Immagino che Walter si riferisca soprattutto al celebre sonetto di Cecco Angiolieri “S’ì’ fosse fuoco, arderei ‘l mondo”. C’è qualcuna delle mie poesie, in effetti, che invoca allegramente l’apocalisse. Il fatto è che tutta la mia rabbia verso i comportamenti umani che mi sembravano superficiali, sciocchi, insensati a volte si è tramutata –specie quando ero più giovane- in odio verso il mondo nel suo insieme. Paradossalmente, a ben vedere, quell’odio e quella rabbia avevano la stessa origine che ora hanno il mio amore per il mondo, per la vita.
Ho sempre pensato che –come dicevo- ci fosse infinita bellezza, ci fosse immensa meraviglia. Ma bruciavo di rabbia fino ad odiare il mondo perché il mondo era pieno di gente che, con la sua superficialità, sviliva il mondo. Certo, può apparire un po’ contorto, ma temo che, più o meno, le cose stiano così.
Più in generale il legame potrebbe stare in una sorta di giocosità dissacrante, di aggressività comica che forse Walter ha ravvisato in entrambi.
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