Arriva Steve McCurry a Forlì, tutti a parlare dell’importanza della fotografia nella nostra epoca, sicuramente uno degli appuntamenti più attesi all’interno della settima edizione della settimana del Buon Vivere. Ma chi é Steve McCurry, un fotografo, un grande fotografo che grazie ai suoi scatti ha fatto conoscere alle persone comuni terribili realtà, già perché quelli che contano di solito le cose le sanno già ma si girano dall’altra parte.
Poi come spesso accade viene pubblicata una foto, una foto non mille parole, una foto, una foto realizzata con una reflex (non col cellulare) e cambia tutto. Sì perché a quel punto non ci si può più nascondere, non si può più far finta di nulla, la verità é stata scritta con la luce e ora tutto il mondo sa.
Steve McCurry nasce a Philadelphia nel 1950 e all’età di 29 anni si trova in India come collaboratore free-lance per alcune riviste americane, quando decide di attraversare il confine del Pakistan con l’intento di fotografare la guerra che si sta combattendo in Afghanistan e di cui ancora nessuno si é interessato. Indossando gli abiti della gente del luogo e privo di documenti riesce ad essere il primo fotoreporter occidentale a documentare l’Afghanistan poco prima dell’invasione sovietica. Dopo circa due settimane, con i rullini cuciti addosso riesce ad uscire indisturbato dal paese. Le foto verranno pubblicate anche sul New York Times ma solo sei mesi più tardi, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan il suo reportage verrà pubblicato sulle riviste e i quotidiani di tutto il mondo.
Per eccezionali meriti di coraggio e intraprendenza gli verrà assegnato nel 1980 il Robert Capa Gold Medal.
Non si considera un fotoreporter di guerra, ma documenta con le sue Nikon svariati conflitti in giro per il mondo, Libano, Cambogia, Filippine, Jugoslavia, Iraq. A lui interessano le persone e le storie scolpite nelle loro facce.
Torna in Afghanistan diverse volte, verrà anche arrestato e incatenato, nel 1984 in un campo profughi incontra una ragazza con gli occhi magnetici, meglio conosciuta come la ragazza afghana, le scatta alcune foto ed una di queste finisce sulla copertina del National Geographic Magazine nel numero di giugno 1985.
Il successo di quella immagine é immenso, tutto il mondo comincia a chiedersi chi sia quella ragazza con quello sguardo profondo dal quale non riesci a staccare lo occhi e inizia a interessarsi alla sofferenza di quel popolo. Quella foto infatti tutt’ora é il simbolo della sofferenza delle donne e del popolo afghano. Nel 2001 grazie all’aiuto del National Geographic McCurry torna in Afghanistan e trova quella ragazza vicino al campo profughi dove l’aveva fotografata per la prima volta quasi venti anni prima, Sharbat Gula, questo il nome di quella ragazza ora madre di famiglia, fino a quel momento non aveva mai visto quella foto tanto famosa che la ritraeva.
Poi la storia si ripete e un’altra foto irrompe nella nostra vita, una foto realizzata con una reflex non con un cellulare, ma poco importa, una foto realizzata da un professionista, non da un impiegato pubblico caduto in disgrazia che non trova un ruolo nella nuova squadra di lavoro, non da un pensionato che pur di passare il tempo é lieto di regalare foto a chicchessia pur di diventare il “loro reporter”, senza rendersi conto del danno che crea ai professionisti dell’immagine che lavorano in proprio o all’interno delle loro cooperative.
Una foto che scuote le coscienze, una foto che non avremmo mai voluto vedere quella del piccolo Aylan, siriano, morto in una spiaggia turca nel tentativo di raggiungere il Canada col padre. Allora si torna a parlare dell’importanza della foto, dei media, dei giornali che raccontano, che ci fanno conoscere quello che non ci vogliono dire, ma se non mettete i fotoreporter professionisti nelle condizioni di lavorare vi ritroverete con un paese senza memoria e storia da rileggere.
Esagero? No! In questo momento storico dove chiunque è in possesso di un cellulare, dove anche il sindaco del paese più sperduto del territorio é in grado con un selfie alla presentazione della tombola di Natale di raggiungere i media in tempo reale, dove chiunque scatta decine di foto inutili al giorno ma non ne ha neanche una guardabile del battesimo del suo primogenito, rischiamo di ritrovarci fra qualche anno senza archivi video-fotografici.
Professionisti dell’immagine sottopagati, quando va bene, sostituiti da colleghi “giornalisti” pronti ad imbracciare il cellulare per salvare il proprio lavoro ma soprattutto l’editore. E quando ti permetti di chiedere spiegazione al direttore di un sito internet che ti ha “rubato” una foto dalla rete vieni incalzato con arroganza, perché d’altronde lui come faceva a sapere che quella era la tua. Ma va bene così, questa è la settimana del Buon Vivere e possiamo parlare dell’importanza della fotografia nel nostro tempo, certo ma solo finché esistono ancora i fotoreporter professionisti. E per favore non chiamateci sciacalli, almeno questa settimana.
Fabio Blaco
Presidente Cooperativa L’Almanacco
Fotoreporter professionista
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