Ricordo ancora una delle prime lettere ricevute nella casella da deputato a inizio legislatura: la richiesta di sottoscrizione di una mozione parlamentare per il ritorno al “Mattarellum” firmata dal vice presidente della Camera, del mio partito.
Dopo una campagna elettorale e un paio di tentativi referendari falliti predicando “mai più al voto con il Porcellum“, con un dottorato in diritto costituzionale appena iniziato presso l’accademia di Bologna che contribuì alla svolta maggioritaria del ’93 e la convinzione che per quanto imperfetta la legge che porta il nome del Presidente della Repubblica fosse la migliore che il Paese avesse conosciuto, pensai “perché no?!”, sottoscrivo. Poi ho capito.
Non si trattava di una iniziativa concordata all’interno del Partito Democratico, come ingenuamente avevo creduto, ma una mossa assai astuta, come solo la scuola parlamentare radicale può insegnare, per disarcionare il Governo Letta, facendo esplodere le contraddizioni di quelle larghe intese appena siglate.
Quella mozione non si sarebbe mai tradotta in legge, tanto più che con una formula assai originale si limitava a impegnare non il Governo (come accade tipicamente per gli atti di indirizzo), ma la “Camera e i propri organi”, con uno slancio per così dire onanistico, ad abrogare il “Porcellum” facendo così rivivere la legge precedente.
L’intenzione era diversa, tutta politica (l’invito dell’assemblea dei deputati a ritirare la mozione fu rifiutato da Giachetti a proposito di come si sta in un partito), e non a caso coincidente con quella che produsse nel gennaio del quattordici la prima accelerazione sull’italicum: far saltare il banco e tornare al voto con un nuovo leader del Pd.
Già, l’italicum, ricordo ancora più nitidamente quella discussione e le umiliazioni subite. Da qualche mese finalmente approdato in Commissione Affari Costituzionali non vedo l’ora di dare il mio piccolo contributo sulle riforme istituzionali. Prima riunione, ci vengono presentati gli estremi dell’accordo trovato al Nazareno.
Seconda riunione ci viene imposto dal segretario del nostro partito il ritiro di tutti gli emendamenti presentati e non ancora discussi in Commissione: “o così o domani verrà convocata una conferenza stampa per indicare chi sono coloro che si oppongono al percorso delle riforme”. Poi l’Italicum va al Senato e dei passi avanti si vedono, ma non bastano.
Quella legge rischia di riprodurre gli stessi vizi di legittimità costituzionale dell’odiato “Porcellum”: un’eccessiva disproporzionalità tra voti e seggi (nel caso di attribuzione del premio di maggioranza al ballottaggio) e la privazione per la gran parte degli elettori (praticamente tutti coloro che non hanno la sorte di votare per il partito vincente) di scegliere liberamente i propri rappresentanti. “Possiamo rimediare nel passaggio alla Camera? – Niet”.
Verrà messa la fiducia, come in soli due precedenti di cui vergognarsi nella storia del parlamento italiano, e il Capogruppo si dimette: “fa niente!”. Insieme ad altri nove membri della commissione, già ministre e ministri, segretari di partito, ordinari di diritto costituzionale, veniamo sostituiti perché in dissenso: sento come una colpa il fatto di aver studiato quelle materie, “meglio non sapere”.
L’Italicum doveva essere un modello imitato nel resto d’Europa. Ora, ancor prima della sentenza della Corte costituzionale è carta straccia. Adesso non bastano le mozioni che impegnano se stessi, si vuole fare un tentativo vero per restituire ai cittadini lo scettro elettorale?
Bene il ritorno al “Mattarellum”, proviamoci. Sì, il ritorno, perché gli anni ’90 sono stati anni di riforme e non di paludi. Le reazioni nevrasteniche sulla primogenitura della proposta servono a poco, il nome è scritto in quel latinetto dal suono rotondo. Prima di procedere, però, pensiamo a questi ormai quattro anni, guardiamoci allo specchio e ciascuno valuti la propria faccia.
Enzo Lattuca
Deputato PD
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