"Nel 1848 un’ondata di grandi rivolte per la libertà e la democrazia attraversa l’Europa, interessando anche il territorio italiano. Intere città insorgono per sbarazzarsi delle tirannie e per acquistare la libertà. Nel 1849 Garibaldi fugge da Roma dopo il naufragare del sogno democratico della Repubblica Romana, repressa nel sangue.
Alcuni anni più tardi, prosegue Balzani, nel corso di un’altra, più famosa “trafila”, i romagnoli dimostrano di aver ben appreso la lezione. È la sera del 2 luglio 1849 e Giuseppe Garibaldi esce da Porta S. Giovanni, a Roma. I francesi hanno espugnato la città e la Repubblica romana è caduta. Ha con sé 4.000 uomini e 800 cavalli, Anita incinta e malata, e insomma ciò che è rimasto della milizia democratica. Lo braccano francesi e austriaci. Utilizzando con abilità le guide a cavallo, Garibaldi riesce a disorientare gl’inseguitori e a non essere mai localizzato. Quando, però, raggiunge le pendici del monte Titano, quasi un mese dopo, il piccolo esercito si è ridotto a circa 1.500 effettivi, male armati e ormai senza cavalli. Il cerchio degli austriaci si stringe: la piccola Repubblica tenta un’impossibile mediazione. Garibaldi, con 250 fedelissimi, decide un’azione disperata: arrivare all’Adriatico e, di là, spingersi verso Venezia, che ancora sembra resistere. Il 1° agosto, il gruppo scende lungo la valle dell’Uso: devono passare la via Emilia e puntare sulla costa. Ci riescono senza essere scoperti: una rete di patrioti, costruita all’istante, senza regia, senza un centro propulsore, sulla base di un passaparola immediato, dota Garibaldi di un mantello invisibile. Il Generale mette la propria vita nelle mani di un popolo di sconosciuti. Il 2 agosto, all’alba, su un piccolo convoglio di barche da pescatori, lascia Cesenatico. Intercettati da una squadra austriaca, sono costretti a prendere terra a Magnavacca: è il 3 agosto e Garibaldi deve tornare in Romagna. È Nino Bonnet – un fratello caduto sugli spalti di Roma -, che si preoccupa di portare il Generale, Anita ormai morente e il capitano Leggero, fuori dalle paludi. Gli altri hanno preso terra in vari punti; alcuni, catturati dagli austriaci, vengono fucilati. Il 4 Anita arriva a Mandriole, non lontano da Sant’Alberto, dove è finalmente visitata. Ma non c’è nulla da fare. Spira. Garibaldi e Leggero riprendono la fuga: il 6 sono al famoso Capanno, poco fuori Ravenna. Un ventennio più tardi sarà ricordato dai democratici locali come “la capanna di Betlemme”. Si scende verso la pineta in direzione sud, poi la trafila ravennate consegna i due scampati alla trafila forlivese. E qui l’uomo decisivo è uno strano sacerdote di Modigliana, allora nel Granducato di Toscana, figlio di un notaio di simpatie napoleoniche: don Giovanni Verità. È lui il personaggio chiave che, nell’ultima decade di agosto, novello San Cristoforo, consente al Generale e a Leggero dì varcare l’Appennino e di dirigersi verso la costa tirrenica, a Cala Martina. Lì, finalmente in salvo, i due prendono il mare il 2 settembre.
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