La zona circostante all’antica pieve di Pieveacquedotto si presta benissimo per passeggiate e camminate non troppo impegnative. Una volta giunti a ridosso della chiesa e del locale cimitero si può comodamente parcheggiare per poi percorrere a piedi le vie Ca’ Mingozzi, andata e ritorno fino alla via Ravegnana, e la via Brunotto, che ha addirittura l’ultimo tratto, che va a sfociare sulla Cervese, non asfaltato. Una volta sul posto, la vicina presenza di queste due arterie stradali, la vicina Autostrada A14 e la Tangenziale Est di Forlì (via della Costituzione), sempre affollate di traffico, quasi non si avvertono, a parte il ronzio costante determinato dalle auto e dai camion che transitano. La sensazione di quiete che il luogo di culto emana, oltre al vicino fiume Ronco con la vegetazione di carattere ripariale che lo caratterizza formata da pioppi, salici, rubini, ai campi coltivati e a tutte le alberature che caratterizzano i cortili delle case poste sulle due vie meta della camminata fanno dimenticare il caotico svolgersi della vita commerciale e industriale della città che in gran parte si incrocia a Pieveacquedotto.
La Pieve di Santa Maria in Acquedotto
La Pieve si trova sulla direttrice dove passava l’acquedotto che fece costruire l’imperatore Traiano (53 d. C. – 117 d. C.) e che veniva alimentato dalle acque captate sulle colline di Meldola (successivamente il punto di prelievo fu spostato oltre Santa Sofia). Attraversava il territorio forlivese col compito di risolvere i grandi problemi idrici dell’assetata Ravenna, l’antica e affollata città portuale da sempre afflitta dall’assenza di acqua sana.
Una descrizione completa e dettagliata del luogo di culto è stata fornita nel 2018 da Marco Vallicelli, storico dell’arte, nel volume “Antiche pievi. A spasso per la Romagna”, prima parte, voluto dall’Associazione Culturale “Antica Pieve”, presieduta da Claudio Guidi, e curato dallo stesso Vallicelli insieme a Marco Viroli e a chi scrive.
Le prime attestazioni che parlano della Pieve riportano la data del 963 anche se sembra che la sua costruzione possa risalire al VI secolo. La chiesa attuale è stata edificata nel XIII secolo sui resti di una più antica, molto probabilmente dalle caratteristiche delle altre pievi della pianura romagnola.
È stata sottoposta nel corso dei secoli a diversi interventi di ricostruzione, di ristrutturazione e di restauro, fino quelli effettuati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che hanno cercato di conferire al monumento uno stile medioevale.
“Nelle murature sono evidenti parti sopravissute dell’edificio antico”, annota Vallicelli, “riconoscibili per i mattoni di colori diversi e dalle malte dall’impasto grossolano. La facciata presenta un grande portale con lunetta cieca sormontata da bifora e due lesene. Sulla controfacciata si trova un bel lacerto di affresco della “Madonna Annunziata”, di Scuola forlivese del XV secolo e forse riconducibile all’ambito di Marco Palmezzano.
La maggior parte degli affreschi precedenti il ‘500 è stata distrutta mentre altri, successivi al 1573, sono stati ricoperti. Sono rintracciabili sulle pareti una Sant’Agata e un San Giovanni Evangelista eseguiti da un pittore locale della fine del XVI secolo.
L’abside è semicircolare sia all’esterno che all’interno. Nei pressi del presbiterio è collocata una pregevolissima opera a stucco della “Madonna col bambino”, replica o copia del bassorilievo di Antonio Rossellino (un’altra copia si trova nella Pinacoteca Comunale).
Il campanile, alto 15 metri, a base quadrata, sembra possa essere datato attorno all’anno Mille. La parte basilare risale a quello originale, mentre le strutture superiori risalgono alla fine del 1200. Circa a metà è presente una bifora che presenta elementi singolari: si tratta di una copia di colonne, in marmo greco, una intrecciata intorno all’altra”.
“All’esterno, sul sagrato della chiesa”, continua Vallicelli, “si trova una colonna di marmo grigio con venature scure, di epoca romana. Non se ne conosce esattamente la funzione, ma sembra possa essere un segnale militare o più semplicemente una pietra miliare che sorgeva sul corso della via Emilia. Spostata dalla sede originaria, venne capovolta ed utilizzata per incidervi un’iscrizione che ancora oggi è possibile vedere, capovolta, nella parte bassa del manufatto.
La zona della Pieve doveva avere strutture adatte ai pellegrini: l’edificio viene citato in un documento del Duecento perché destinato ai viandanti che dal nord Italia erano diretti a Roma passando per la valle del Bidente. Nella seconda metà del Trecento si ha notizia dell’esistenza nei suoi pressi di un villaggio rurale non fortificato, Villa Plebis Acqueductus”.
Gli alberi della Pieve
Vale la pena mettere in evidenza la presenza attorno alla chiesa di diversi alberi che per dimensioni del tronco, per altezza e per vetustà sono da considerare un patrimonio paesaggistico e naturalistico di rilevante bellezza e importanza. Con la collaborazione di Alessandra Artusi e Claudio Guidi, dell’Associazione “Antica Pieve”, è stata mappata la zona e pertanto posso segnalare la presenza di un cipresso di belle dimensioni a lato della Pieve sulla rete di confine con via Brunotto e un altro più piccolo, assai malandato a fianco, mentre altri due nella stessa posizione sono sovrastati da tre querce di una certa rilevanza. Una quercia secolare (o roverella) svetta a lato del passo carraio e del parcheggio della chiesa. 7fino al 1975 ha avuto a fianco una pianta gemella di cui si intravede a malapena la ceppaia.
Marina Salimbeni, figlia dell’ultimo mezzadro del podere di proprietà della chiesa, ricorda che nel 1970 circa alcuni tecnici forestali prelevarono getti di roverella e ghiande per poterle impiantare in area collinare ai bordi di strade dove si erano ammalate altre piante analoghe. Di questo fatto fu particolarmente felice perché in un altro luogo sarebbero cresciute le querce “figlie” della vecchia quercia, tagliata perché si era ammalata e svuotata nella parte bassa del tronco dove avevano trovato rifugio, come capita in questi casi, molti parassiti animali e vegetali. Secondo testimonianze di alcuni anziani, raccolte dal parroco don Andrea Carubia, la grande quercia secolare gemella superstite subì durante un bombardamento una menomazione di parte del tronco (come se fosse stata tranciata una fetta) e dei rami che crescevano da quel lato, tanto che si può notare la parte innaturalmente piatta sul tronco. Questa quercia e la sua gemella abbattuta segnavano l’ingresso alla Pieve, mentre le altre due querce in angolo sulla via Ca’ Mingozzi indicavano l’accesso a un cimiterino antico che esisteva a fianco del luogo di culto, come è testimoniato da una vecchia fotografia.
Sono presenti anche quattro tigli sempre sulla linea di confine tra parcheggio e via Ca’ Mingozzi. Sul retro della canonica si notano tre cedri del Libano in buone condizioni, mentre altre tre piante della stessa specie, di recente colpite da fulmini durante un temporale, si trovano a margine dell’ex campo di calcio, a lato della Pieve. Nel terreno circostante la casa colonica spiccano un gelso secolare, purtroppo capitozzato, due olmi campestri a margine della corte, due pioppi capitozzati e altri quattro gelsi sul retro vecchi di 70/80 anni, e un abete di scarso valore di fronte all’ingresso.
Pur riconoscendo il valore e l’importanza di queste piante e delle loro storie, che saranno oggetto di una visita sul posto appena sarà possibile, in questa rubrica dedicata ad alcuni alberi che caratterizzano il nostro territorio, intendo però parlare di un nespolo, costituito da tre cespugli, che vegeta sul ciglio della strada che dalla rotonda della Tangenziale Est porta alla pieve (vedi foto di Giulio Sagradini). In una mattina dello scorso settembre andai sul posto allo scopo di fare una camminata e rimasi sorpreso da questa pianta, non particolarmente robusta e neppure molto antica, carica all’inverosimile di frutti. Inoltre notai che nonostante il forte temporale che si era sviluppato durante la notte nessuna nespola era caduta a terra; un fatto davvero singolare perché le altre piante da frutto avevano subito un qualche danno.
Il nespolo comune
Il nespolo comune (Mespilus germanica) è un albero da frutto, appartenente alla famiglia delle Rosaceae. Le prime coltivazioni risalgono al I millennio a.C. lungo le rive del Mar Caspio, da qui si diffuse in Asia Minore per raggiungere poi Grecia e Italia. Il medico, botanico, naturalista e accademico svedese Carl Nilsson Linnaeus, chiamato Carlo Linneo in italiano (1707 – 1778), considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi chiamò questo albero Mespilus germanica perché in Germania era diffusissima e ritenne fosse il luogo della sua origine.
Solitamente è un albero di modeste dimensioni, raggiunge al massimo i cinque metri d’altezza. Il portamento è irregolare e nei soggetti invecchiati i rami tendono verso terra, mentre nei soggetti selvatici i rami possono essere spinosi. È una pianta molto fertile; il frutto è un falso frutto dato dall’ingrossamento del ricettacolo attorno ai frutti veri e propri ed è chiamato “nespola”. Secondo antichi usi la sua raccolta dovrebbe avvenire prima del 4 ottobre, festa di san Francesco.
Le nespole hanno forma riconoscibilissima, tondeggiante (assomigliante ad una trottola). Il peduncolo è corto con un’ampia depressione apicale coronata da residui del calice ed una buccia resistente che per colore e consistenza ricorda il cuoio.
Queste “trottole” non sono subito mangiabili, ma diventano commestibili solamente dopo un certo periodo, quando la polpa aspra, ricca di tannino, diventa bruna, molle e zuccherina. La maturazione deve avvenire in un luogo asciutto, secondo la tradizione sulla paglia, lontano da frutti che emanino sostanze come l’etilene prodotto dalle mele.
Un proverbio italiano dal sapore contadino dice: “Con il tempo e con la paglia maturano le nespole” che deriva proprio dall’uso di far maturare a lungo il frutto, non essendo possibile
mangiarlo appena raccolto, in contenitori ricoperti di paglia e al buio. Analogo significato ha il proverbio “Con il tempo e con la paglia maturano le sorbe”, oppure “Con il tempo una foglia di gelso diventa seta”, che vuol dire aver pazienza, oppure di attendere una soluzione che prima o poi arriverà.
Un tempo ogni dimora di campagna aveva almeno un nespolo in cortile, perché si credeva che tenesse lontane le streghe e la sfortuna. I contadini si servivano della pianta anche per scandire il passare delle stagioni, perchè era la prima a fiorire e l’ultima a maturare i suoi frutti, e una buona fioritura veniva considerata come premonitrice di un ricco e abbondante raccolto.
Il nespolo giapponese
Negli ultimi due secoli però, in Europa e altri paesi del mondo è stato gradualmente e commercialmente rimpiazzato dal nespolo giapponese, che appartiene ad una specie diversa, ma i suoi frutti vengono sempre chiamati “nespole”. I frutti di entrambe le due specie si raccolgono acerbi, in attesa di maturazione fuori dalla pianta, tuttavia la nespola europea è a raccolta autunnale, di forma più tondeggiante e con una buccia di color verdastro-grigio-marrone chiaro, riconoscibile da una grossa apertura al fondo, mentre quella giapponese è primaverile, la bacca appare più oblunga e chiusa, e la buccia di un colore più vivo e giallastro.
Le proprietà delle nespole
Secondo “Il Giornale del cibo” le nespole hanno “la proprietà di abbassare il colesterolo ‘cattivo’ nel sangue, grazie alla presenza di pectina, una particolare fibra che, appunto, riduce il riassorbimento di colesterolo nel colon e ne facilita l’espulsione. È utile quindi per il benessere dei vasi sanguigni e dell’intero apparato circolatorio, sostenuto anche dalla presenza di potassio che contribuisce alla regolazione della pressione arteriosa e prevenendo pertanto patologie quali infarto ed ictus.
Grazie alla sua caratteristica diuretica, la nespola è di aiuto anche in chi soffre di problemi renali quali ad esempio insufficienza renale, calcoli renali, iperuricemia e gotta. Mentre la presenza di amigdalina, fa sì che abbia effetti benefici anche sul fegato”.
I nutrizionisti ricordano anche la funzione antipiretica contro la febbre e rimineralizzante (per cui le nespole sono preziose in caso di carenze da minerali o come recupero dopo un’attività sportiva). Essendo ricche di acqua e fibra, questi frutti aiutano a indurre il senso di sazietà e sono consigliati in chi deve dimagrire e deve seguire un regime alimentare ipocalorico (tenuto conto del basso apporto calorico). È importante precisare che i semi della nespola non devono essere ingeriti, perché tossici.
Il nespolo nella storia
I greci consacrarono la pianta al dio Cronos. Anche gli antichi Romani la tennero in buona considerazione in quanto simbolo del dio Saturno. Secondo le credenze l’albero del nespolo aiutava a tenere lontano dalla casa sventure e stregonerie e questo contribuì ad un’ampia diffusione di questa coltura. I frutti erano invece simbolo di prudenza, saggezza e pazienza. Sicuramente per questo da sempre è associato alle virtù femminili, alla donna virtuosa: al punto che regalare un rametto di nespole era considerato di buon augurio in occasione dei matrimoni.
Oltre a gustarne i frutti impiegarono le sue foglie e i frutti immaturi essiccati come forte astringente per curare i disordini intestinali, così come avvenne per tutto il Medioevo. In tempi in cui le malattie venivano curate con i vegetali, la pianta del nespolo comune era diffusissima e molto apprezzata tenuta in grande considerazione. Apprezzamento che mantenne nei secoli sino alla fine della seconda guerra mondiale. Quando si verificò lo spopolamento delle campagne,
dovuto al boom economico del dopoguerra, molti terreni, cascine e alberi da frutto furono abbandonati anche la pianta del nespolo comune non fu più quasi piantata né coltivata. Oggi che si cerca di valorizzare le piante di un tempo anche questo albero antico è stato ripreso in considerazione. Non tanto per consumare la sua frutta matura ma per impiegarla in deliziose marmellate e confetture.
Il nespolo di Giovanni Verga
Lo scrittore siciliano Giovanni Verga nel suo romanzo più conosciuto “I Malavoglia”, pubblicato a Milano dall’editore Treves nel 1881, una delle letture più diffuse e indicate nei programmi di letteratura italiana all’interno del sistema scolastico italiano, narra la storia di una famiglia di pescatori che vive e lavora ad Aci Trezza, un piccolo paese siciliano nei pressi di Catania. Nel racconto I Malavoglia sono indicati come “quelli della casa del nespolo”. Vediamo l’intero passaggio del testo di Verga: “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla”.
A quale nespolo farà riferimento lo scrittore? Secondo i critici letterari e gli studiosi non può essere sicuramente con quello “giapponese”; pianta sempreverde, vagamente esotica, che in primavera produce gustosissimi frutti di forma ellittica, giallo-arancioni, dalla succosa e zuccherina polpa biancastra e dai grandi semi marroni. Del resto nel continuare la lettura del racconto, come scrive il naturalista Ferdinando Fontanella, si apprende che: ‘Il nespolo lasciava cadere le foglie vizze, e il vento le spingeva di qua e di là pel cortile’, quindi “L’albero dei Malavoglia è, invece, sicuramente una specie diversa, Mespilus germanica: essenza caducifoglia, dal frutto invernale, piriforme, marrone, che per essere mangiato necessita di un periodo di ammezzimento.
Del resto nella seconda metà dell’Ottocento, periodo storico in cui si svolge la vicenda narrata da Verga, la casa di padron ‘Ntoni non poteva avere un nespolo del Giappone nel cortile. Questa pianta in quel tempo doveva essere molto rara, fu introdotta in Italia, nell’Orto Botanico di Napoli, solo nel 1812. Al più poteva trovarsi, come curiosità botanica, nel parco di qualche villa aristocratica, non certo nell’umile casa di pescatori.
“Mentre il nespolo comune è pianta conosciuta da lungo tempo”; sono sempre parole di Fontanella, “coltivarlo nel cortile assicurava saporiti frutti, ristoro e compagnia ‘nell’estate ci avrà lì vicino il nespolo per fargli ombra’ e fungeva da segnatempo ‘Il nespolo intanto stormiva ancora, adagio adagio, e le ghirlande di margherite, ormai vizze, erano tuttora appese all’uscio e le finestre, come ce le avevano messe a Pasqua delle Rose’.
Un tempo in campagna: nel mese di novembre
Dal libro di “La campagna appena ieri” di Pietro Barberini e Grazia Bravetti Magnoni stralcio queste righe che descrivono la vita e i lavori di una volta durante il mese di novembre dove si accenna alla raccolta dei cachi, di cui ho parlato nell’articolo precedente dedicato a questi alberi, e delle nespole. Ecco il breve testo: “Sembrava che ci fosse poco da fare nei campi, il lavoro invece c’era, ma diverso e meno assillante. Solo chi aveva i cachi doveva fare un altro raccolto, l’ultimo dell’anno con quello delle nespole. Tutti iniziavano le potature, che erano lente e si protraevano, per ragioni diverse sino a Febbraio e anche più in là.
Quando non pioveva, anche in mezzo alla nebbia si svettavano le siepi, di cui si tagliavano le cime fino a pareggiarle. Poi si cominciava la lunga potatura degli alberi da frutta, bisognava diradare le piante altrimenti il raccolto non sarebbe stato regolare e gli alberi sarebbero cresciuti male, privi di vigore. Per le viti occorreva ancor più tempo e molta abilità.
Dopo potato, lungo i filari e nei frutteti, bisognava raccogliere i “sarmenti”. Si facevano delle fascine legate coi vimini dei gelsi e queste poi servivano per accendere il fuoco nel camino e per scaldare il forno dove si cuoceva il pane.
Quand’erano giornatacce, con la pioggia, si stava nella stalla o sotto il portico ad accomodare sedie, scale e scaletti, a fare cesti e a rifare i manici a zappe, vanghe e forcali.
Le donne, invece, a Novembre, cominciavano a filare con la rocca la canapa e la stoppa, solo qualcuna aveva la lana, che il mese dopo si cominciava a tessere. In più bisognava “rappezzare” per l’intera famiglia calze, camicie, pantaloni, corpetti, e persino le mutande….”
I proverbi e modi di dire sulle nespole
Alcuni proverbi su questo argomento sono riportati nel libro “Lunario. Dodici mesi di miti, feste, leggende e tradizioni popolari d’Italia” di Alfredo Cattabiani (1937 – 2003), edito da Mondadori nel 2002, come quello già ricordato “Per San Francesco la nespola nel cesto”, cui fa eco: “Quando appare la nespola piangete perché è l’ultimo frutto dell’estate”. Ma in realtà la nespola non è l’ultimo, perché in questo periodo maturano anche i cachi, come ho scritto nel precedente articolo dedicato al gruppo di piante di questo frutto presente a fianco del Cimitero Monumentale. Poi la nespola, come già detto, è un frutto d’ottobre soltanto in teoria perché non si può mangiare appena colta: occorre farla maturare. Si dice infatti: “Per San Simone la nespola si ripone”. E anche: “Col tempo e con la paglia maturano le nespole”. Siccome era ed è facile raccoglierle e conservarle, non erano tenute in gran conto, tant’è vero che ancora oggi si può sentire rispondere a qualcuno che chiede una cosa troppo costosa: “Nespole!”. Ovvero, ironicamente: “Ti accontenti proprio di poco!”.
Nel linguaggio popolare il termine “nespola” indica anche un colpo dato in modo rapido e secco: “Gli ho dato certe nespole!”.
Libero Ercolani nel volume “4500 modi di dire e 280 indovinelli in dialetto romagnolo” ha riportato questi detti: “L’è indrì coma al nëspal” (È indietro – ritardato – come le nespole); “Par Sa’ Franzèsc, la nëspula int e’ zest” (Per San Francesco – 4 ottobre – la nespola nel cesto); “Par Sa’ Martén, nëspul e bôn ven” (Per San Martino – 11 novembre – nespole e vino buono); “Al nëspul a ‘l j indvéna l’arcôld” (Le nespole predicono come sarà il raccolto del grano – Se sono abbondanti quello dell’anno dopo sarà un buon raccolto e viceversa); “La prèma la fraguléna; l’utma la nispuléna” (La prima è la fragolina; l’ultima è la nespolina a maturare nel corso dell’anno).
La nespola di Molinella, prodotto De.C.O. Denominazione Comunale di Origine
A Molinella i frutti raccolti possono vantare la Denominazione Comunale di Origine perché sono il prodotto di alberi coltivati da molto tempo; una “certificazione” di tipicità per questo e alcuni prodotti agroalimentari che non rientrano, per motivi diversi, in altre forme di tutela. È una modalità per legare un prodotto alla sua terra, al luogo dove esso si produce da sempre.
Gabriele Zelli
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