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Questa nota rappresenta l’introduzione al volume “Percorsi di giornalismo cooperativo in Romagna”, pubblicato da Edit Sapim in occasione dei venticinque anni dell’organo di informazione di Legacoop Romagna (il PDF è disponibile qui). Sono ragionamenti ancora attuali, che mi sono tornati in mente oggi conversando con l’amico e collega Davide Buratti, in occasione dell’inaugurazione della Panchina per la Libertà di Stampa fortemente voluta dall’Assostampa di Forlì-Cesena, dall’Aser e dal Comune. Mi auguro possano essere utili a un dibattito politico che, purtroppo, mi sembra ormai orientato altrove. (EG)
Questo volume non vuole essere né un omaggio, né un’autocelebrazione, ma uno strumento di riflessione per tutti coloro che si occupano di informazione locale e di comunicazione.
La domanda da cui siamo partiti è questa: pubblicare un giornale è ancora un valore per le cooperative? Per rispondere abbiamo rivolto lo sguardo alle origini della Romagna Cooperativa, il mensile di Legacoop Romagna (oggi La Visione Cooperativa – ndr). Ancora oggi l’unico periodico cartaceo che viene pubblicato con regolarità dal movimento cooperativo di Legacoop a livello nazionale.
Lo spunto per affrontare questo viaggio è un duplice anniversario: nel 2021 la registrazione della testata da cui ha preso vita il giornale ha compiuto 25 anni. Nel 2024, in corrispondenza con il decimo anniversario di Legacoop Romagna, saranno dieci gli anni di pubblicazione del giornale nella sua nuova veste (il numero zero uscì a dicembre 2013 come supplemento alla Società Cooperativa).
Il libro si apre con un saggio di Tito Menzani, uno storico che conosce bene il mondo delle cooperative. La sua ricerca va ad esplorare un territorio finora poco esplorato, le origini della pubblicistica che accompagnò la rinascita delle cooperative romagnole nel dopoguerra. Già dalla premessa il testo di Menzani conferma un’intuizione propria di chi ha frequentato i polverosi archivi a caccia di documenti originali e storie di pionieri del mutualismo. La storia della Cooperazione è sempre stata, sin dalle origini, anche una storia di giornali cooperativi. Così come è una storia fatta di stampa quella di ogni organizzazione politica e sociale che abbia avuto un ruolo importante e ambisca ad attraversare le generazioni. Senza scrittura non c’è pensiero e senza pensiero non c’è memoria.
Da qui una prima considerazione. I supporti informatici, anche i più moderni, sono destinati a diventare obsoleti nel giro di pochi anni. La presunta immaterialità della rete che ci circonda è legata, per forza di cose, a tecnologie fisiche che diventeranno prima o poi archeologia digitale. Chi è in grado, oggi, di leggere un floppy disk da 8 pollici? È ancora più semplice che giungano alle future generazioni i testi e le foto contenute in un volume rilegato 100 anni fa che il contenuto di un disco rigido o di un “cloud”. Scrivere e pubblicare un giornale significa, per un’organizzazione che ha le sue radici nel XIX secolo, misurarsi con una dimensione temporale diversa dal continuo presente in cui siamo immersi.
Nel capitolo successivo, attraverso le interviste ad alcuni protagonisti del movimento cooperativo romagnolo a cavallo tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, abbiamo cercato di capire perché in Romagna è stata mantenuta una pubblicistica cooperativa, in linea di continuità con le testate nate nel primo Dopoguerra. In ognuna delle tre Legacoop provinciali che è poi confluita in Legacoop Romagna esisteva un progetto editoriale autonomo e originale. Lo stesso non è accaduto e non accade in altri territori.
I motivi sono diversi. Vanno dalla indubbia forza del movimento cooperativo romagnolo, capace di sostenere economicamente un proprio giornale di riferimento, alla formazione politica e culturale delle persone che fecero quelle scelte. Ma è giusto interrogarsi se questa scelta, che rappresenta un impegno importante, abbia ancora senso oggi.
Infine, abbiamo cercato di capire qual è lo stato dell’arte della filiera della comunicazione cooperativa, sia dal punto di vista delle imprese che operano nel settore, sia da quello delle grandi cooperative che si occupano di altro e hanno mantenuto un proprio giornale di riferimento, in particolare nel settore agroalimentare.
Ma torniamo alla domanda iniziale. Ha ancora senso un giornale cooperativo nella seconda decade del XXI secolo?
Non è un caso che il quinto principio cooperativo dei pionieri di Rochdale parli espressamente di “educazione, formazione e informazione”. Un socio consapevole, in un sistema di partecipazione democratico, è un socio in grado di scegliere in modo equilibrato, soppesando le questioni in gioco e senza farsi ammaliare dalle sirene di chi offre tutto e subito. Lo stesso avviene non solo nelle aziende, ma a livello pubblico. La parola chiave, in entrambi i casi, è pluralismo, la presenza di più voci, di strumenti informativi a cui rivolgersi per costruire la propria opinione.
Le condizioni che ci pone di fronte la modernità apparirebbero dunque perfette.
Non è mai esistita un’epoca in cui la tecnologia per dare a tutti la possibilità di esprimere la propria voce sia stata così economica e diffusa. Attraverso gli strumenti elettronici, la rete e i social network chiunque può diventare editore di se stesso. Pubblicare una foto, un video o semplicemente un articolo — un tempo impresa tecnicamente complessa e riservata a chi aveva specifiche competenze di programmazione — nell’arco di pochissimi anni è diventato naturale come bere un bicchier d’acqua. Le fonti di diffusione della scienza non sono mai state così alla portata di tutti. I protagonisti della politica, della cultura e delle arti sono a portata di commento o almeno di messaggio. Addirittura chi ricopre posizioni di potere economico si sforza per ridurre al minimo la distanza tra se stesso e la base, attraverso percorsi di dialogo che annullano la distanza.
Chiudendo gli occhi al termine del 2008 e riaprendoli oggi dovremmo quindi risvegliarci nel migliore dei mondi possibili, immersi in un consenso rapido e moderato, un eden orizzontale in cui ciascuno è un nodo della rete dove interagisce da pari a pari. La parola chiave, in questo caso, è disintermediazione. Se il mondo sia diventato più più rapido, più esatto e più sostenibile (o almeno più leggero) lo lascio decidere al lettore.
Nel frattempo i media tradizionali, i giornali in primo luogo, sono stati decimati. Negli Stati Uniti, che se non sono la più antica democrazia al mondo sono di sicuro la più potente, si parla addirittura di “news deserts”, deserto informativo, per larghe aree del paese. A essere più colpiti sono i giornali locali, solo in rarissimi casi sostituiti da iniziative online di pari spessore. Lo stesso è accaduto in Italia e in Europa, all’interno di una transizione che pare non avere mai fine. A questa serie di sconvolgimenti epocali nel nostro Paese si è aggiunto un fatto ulteriore. La solida tradizione di contributi pubblici al pluralismo delle fonti informative — sicuramente perfettibile, oggetto di abusi e da riformare come quasi tutte le forme di sostegno — è divenuta oggetto di una violenta campagna populista. La critica al finanziamento pubblico all’editoria, talvolta sacrosanta, è stata trasformata in una ritorsione erga omnes come ha lamentato la stessa Federazione Nazionale della Stampa.
La vicenda — culminata all’interno del movimento cooperativo nella campagna “Meno Giornali Meno Liberi”, partita proprio dalla Romagna — ha messo in luce una tendenza condivisa da moltissimi esponenti di ogni parte dell’arco costituzionale. Quella di considerare ormai esaurito il prodotto informativo “giornale”, irrimediabilmente superato dalla modernità. A essere messo in dubbio — pur se spesso solo privatamente — è il concetto per cui il giornalismo, la libera informazione e il pluralismo sono beni pubblici, in quanto elementi fondanti della democrazia e del sistema costituzionale, come sostiene l’Unesco. Per chi sostiene che i giornali sono l’architrave del concetto stesso di democrazia è stata riservata una sottile ironia, se non un vero e proprio scherno. I conti economici in rosso delle iniziative editoriali sono stati esposti come la causa del crollo del sistema, e non come l’effetto. Il sistema dei media tradizionali è stato disrupted, per utilizzare un termine entrato nel linguaggio comune con i successi della Silicon Valley, ma difficilmente traducibile.
C’è voluto molto tempo, molti scandali e molti studi scientifici per cominciare ad affrancarsi dall’idea per cui la diffusione delle notizie mediata da algoritmi rappresentasse il modo più efficiente e razionale per alimentare il dibattito democratico. Grazie a studi scientifici precisi oggi sappiamo con certezza che chi frequenta i social non lo fa per aumentare il proprio sapere, ma per cercare conferma alle proprie credenze. Dei blog, che tanta importanza hanno avuto in una tumultuosa stagione politica, non si ricorda più nessuno o quasi.
Nel contempo, la perdita di fatturati pubblicitari e di copie ha innescato una spirale discendente per i media tradizionali che ha mostrato di essere un pericolo per la nostra società. Tesi complottiste, disinformazione e fake news sono il limite estremo su cui l’opinione pubblica è stata spinta da algoritmi che premiavano il tempo di permanenza dell’utente a fini pubblicitari, non l’accuratezza delle fonti o l’esattezza delle informazioni.
Non solo chi ricopre posizioni di responsabilità, del resto, si rende perfettamente conto di vivere in un’epoca in cui la comunicazione è al centro di ogni cosa. Si può dire che alla comunicazione non si chiede più solo di rappresentare il mondo, ma di costruirlo. Gli effetti, in assenza di un limite deontologico, sono quelli che vediamo ciclicamente nelle bolle che scuotono alle basi il sistema economico e finanziario. La speculazione si nutre di narrazioni tossiche dal 1637, quando la “febbre dei tulipani” causò il primo crack finanziario della storia.
La necessità di formare e informare i soci, che i pionieri del movimento cooperativo avevano sentito così pressante da inserire all’interno dei principi fondanti, è quindi quanto mai viva.
Proprio per questo la domanda occorre porsela. Ha ancora senso, nel 2022, continuare a pubblicare un giornale? Un giornale vero, con una redazione, un piano editoriale, un direttore responsabile, una testata registrata in tribunale, dei giornalisti che scrivono e collaborano? Ha senso sostenerne i costi economici e organizzativi?
Lo è ancora di più per un giornale, come la Romagna Cooperativa, che non percepisce contributi pubblici e il cui conto economico viene sostenuto integralmente dal movimento cooperativo.
Quando abbiamo cominciato a raccogliere il materiale per costruire questo volume siamo partiti da questa domanda, al fine di definire i contenuti di un compendio che non fosse autoreferenziale, ma anzi rappresentasse il punto di partenza per una serie di riflessioni che investono tutta la comunicazione del movimento cooperativo e non solo. Capire a che punto siamo è necessario per potere dare una risposta.
Facciamo allora un passo indietro, a un’epoca in cui i social network non erano ancora nati o erano agli albori. Uno dei primi a rendersi conto della rivoluzione in atto, a metà degli anni Dieci, fu un giornalista tecnologico statunitense: Tom Foremski. A lui si deve la celebre intuizione “Every company is a media company”, secondo cui ogni azienda — non importano dimensioni e settore — avrebbe dovuto imparare a padroneggiare gli strumenti di comunicazione al fine di produrre contenuto di interesse per le sue comunità di riferimento. Non è solo una questione di promozione. Si tratta, secondo la felice intuizione di Foremski, di una necessità vitale in un mondo in cui lo spazio di relazione è diventato piatto e non esistono più gerarchie informative.
A questo proposito vale la pena notare che la L.47/1948 (Legge sulla stampa), tuttora, dettaglia con precisione i requisiti per chi intende pubblicare a mezzo stampa: le indicazioni obbligatorie, la necessità di nominare un direttore responsabile, l’obbligo di registrazione in tribunale e tutte le altre formalità. La stessa legge precisa anche i profili di responsabilità civile e penale per le varie figure coinvolte. Se la riproduzione elettronica possa essere equiparata a quella tipografica è oggetto di un acceso dibattito dottrinale, solo in parte risolto dalla Cassazione penale. La Suprema corte ha esteso la nozione di stampa alle testate telematiche con una periodicità regolare, ma non alle altre piattaforme on-line, come i più popolari social network, che hanno una potenzialità di diffusione (e lesività) ben maggiore di un giornale online o cartaceo. La conseguenza pratica, nei fatti, è che la strada per pubblicare un giornale cartaceo non solo è più complessa dal punto di vista economico e “burocratico”, ma rischia di diventare svantaggiosa dal punto di vista dell’ordinamento rispetto a chi esprime le proprie opinioni su un profilo social da milioni di follower.
Al di là del dibattito dottrinale, la realtà è che di fronte agli immensi cambiamenti che le nuove tecnologie hanno apportato nel giro di pochi anni è mancata completamente una normativa organica che fosse in grado di inquadrare il settore informativo dal punto di vista giuridico. La regolamentazione è stata lasciata alla mano libera del mercato e agli algoritmi degli “over the top”, che hanno sempre avuto come primo obiettivo la massimizzazione dei fatturati pubblicitari. Ed è ovvio che più un video, una foto o un articolo è controverso, divisivo e polarizzante, maggiore è l’attenzione dei lettori.
Una delle conseguenze è che nello spazio rarefatto del web e dei social tutte le fonti informative hanno assunto lo stesso peso per una popolazione sostanzialmente digiuna delle conoscenze necessarie a distinguere la propria dieta informativa. Le difficoltà del giornalismo professionale hanno coinciso con l’aumento esponenziale delle fake news e della cosiddetta controinformazione, con conseguenze catastrofiche di fronte a un evento come la pandemia. La correlazione non esprime un nesso causale, ma il fenomeno è innegabile.
Il modello di business del web, del resto, è molto diverso da quello dell’editoria tradizionale, che si basa su un mix di vendita di spazi pubblicitari e introiti derivanti dalla vendita di copie. Le piattaforme dei giganti del web non producono, ma “aggregano” contenuti provenienti da diversi canali. La vendita di spazi pubblicitari sulle piattaforme è stato il vero elemento dirompente della rivoluzione dei social network, insieme all’utilizzo dell’intelligenza artificiale per profilare le abitudini di acquisto. Si è rivelato molto difficile, invece, convincere chiunque a pagare un abbonamento per leggere online le news della propria testata preferita. Lo spostamento di risorse verso l’acquisto di spazi pubblicitari online ha finito per premiare non chi produce contenuti, ma chi li acquisisce gratuitamente da fonti diverse per poi veicolarli al pubblico attraverso una piattaforma. Il modello giornalistico fino a quel momento prevalente ne è uscito ulteriormente depotenziato e impoverito di risorse.
Gli effetti si sono visti a ogni livello. Chi ha una piccola attività, ad esempio, si è dovuto confrontare con il difficile mondo delle recensioni online e dei commenti. Anche il fornaio, l’albergo e il chiosco della piadina sono diventati “media company” loro malgrado, dopo essere stati impacchettati a loro volta all’interno di piattaforme di vario tipo che promettono “recensioni imparziali”. Anche un sistema di mappe, da questo punto di vista, rappresenta in pratica un social network. Le indubbie opportunità di promozione offerte dal mercato digitale hanno portato con sé inevitabili esternalità negative: pubblicità mascherate e informazioni fittizie sono la norma sul web, per non parlare di locali che scalano le classifiche di gradimento pur non essendo mai esistiti.
Si spiega con questo processo di disintermediazione la nascita dei cosiddetti influencer digitali. Il termine proposto dall’Accademia della Crusca, influenzatori, toglie ogni nobilità alla professione. Sono quei personaggi che, grazie alla popolarità dei propri contenuti online, sono in grado di orientare l’opinione pubblica su un determinato argomento. Se non c’è più distinzione tra le diverse fonti informative, non solo ogni azienda è una “media company”, ogni persona lo è. Nel suo piccolo chiunque può diventare opinionista, fino a riuscire ad attivare lucrosi contratti di sponsorizzazione commerciale. Dopo alcuni exploit iniziali non ha avuto sviluppo positivo, viceversa, il cosiddetto citizen journalism, il giornalismo partecipativo che prometteva di trasformare ogni persona in un giornalista. Troppo complicato e faticoso fare cronaca, ad esempio, da un tribunale o da un comune a meno che non si abbia un’agenda politica da promuovere, più o meno nascosta. Anche per i meglio intenzionati, il tema diventa sempre quello di come sostenere dal punto di vista economico un’attività professionale rischiosa, impegnativa e ormai anche poco remunerativa come il giornalismo, eppure indispensabile per la democrazia.
Quando Umberto Eco, al termine di una lectio magistralis all’Università di Torino, lamentò l’invasione degli imbecilli sui social media, auspicò anche che al termine si sarebbe creata una certa sindrome di scetticismo. La risposta agli aspetti negativi della globalizzazione digitale, però, non può passare solo dalla responsabilizzazione personale e dalla costruzione di filtri educativi. Se è vero che «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel» è vero anche che le piattaforme sono costrutti informatici, proprio come le biblioteche di diritto sono costrutti del legislatore. Così come basta una parola del legislatore per mandare al macero le seconde, basterebbe uno spostamento di variabili da parte del programmatore per cambiare completamente il funzionamento delle prime.
Dal punto di vista dei giornalisti, forse, sarebbe sufficiente smettere di fare propaganda gratuita alle startup digitali che hanno messo in dubbio la loro stessa sopravvivenza come categoria professionale. O, almeno, smettere di riservare le cose più divertenti e i pezzi di scrittura ai propri profili sui social network, anziché pubblicarli sulle proprie testate di riferimento.
I giornalisti hanno tardato a capire, tra l’altro, lo spostamento di valore dal lato qualitativo a quello quantitativo. Su internet tutto è misurabile e non vale più il vecchio detto dell’investitore pubblicitario: «So esattamente che metà di quello che spendo per acquistare pubblicità sono soldi buttati via. Il problema è che non so quale metà».
Avere la certezza che il gossip e gli articoli di colore generano milioni di visualizzazioni, mentre un approfondimento sulle politiche economiche è argomento per pochi eletti, è uno shock in grado di cambiare le linee editoriali di una testata.
La qualità paga? No, perché le cosiddette metriche che interessano agli inserzionisti pubblicitari non misurano la qualità del contenuto, ma solo la sua diffusione. Dare visibilità a qualsiasi tipo di messaggio, tra l’altro, è diventato banale per chi dispone di sufficienti risorse economiche. È sufficiente acquistare visualizzazioni, e a volte affrontare un blando controllo sui contenuti da parte della piattaforma su cui sponsorizzare il contenuto. Anche in questo il modello economico dei social media ha costruito la realtà, influenzandola direttamente. La stessa industria pubblicitaria, un tempo potentissima, ne è uscita trasformata, perché la creatività e l’aspetto artistico, un tempo prevalenti, sono diventati elementi di corredo alla pianificazione basata sui dati. In un mondo di questo tipo il motto di chi fa marketing è “reach is a commodity”: la visibilità è una merce fungibile, che si può acquistare liberamente sul mercato, non importa come venga prodotta.
Ovviamente chi scrive pensa che il digitale sia una grande opportunità, che ha aperto spazi di libertà di espressione e di applicazione concreta dei principi espressi dall’articolo 21 della Costituzione mai visti prima. I fenomeni sopra rappresentati non derivano dalla diffusione di Internet, ma dai processi di concentrazione che hanno riposto in pochissime mani le chiavi della costruzione dell’opinione pubblica, sia dal punto di vista degli enormi fatturati pubblicitari, sia da quello del controllo degli algoritmi. Il risultato più evidente, dopo una enorme sottovalutazione da parte delle democrazie, sono stati i fatti di Capitol Hill.
Torniamo al principio cooperativo sulla formazione, educazione e informazione dei soci. Chiediamoci se un meccanismo di questo tipo sia compatibile, dal punto di vista etico con la comunicazione dell’impresa cooperativa. Non rifiutandolo a priori dal punto di vista ideologico, negando la realtà delle cose, ma chiedendosi come trasportare i valori cooperativi in questo ambito, vivendo pienamente quest’epoca con il suo carico di contraddizioni e opportunità.
In questo volume abbiamo cercato di elaborare i motivi per cui, anche in questi anni così tumultuosi, Legacoop Romagna ha continuato a investire per mantenere una propria testata giornalistica di riferimento, organizzata dal punto di vista giornalistico e stampata su carta, avendo però allo stesso tempo un proprio piano di comunicazione digitale sul web e sui social, supportato da apposite campagne di sponsorizzazione e diffusione a pagamento.
Fra tanti ne cito tre. Il primo è l’autorevolezza della fonte informativa. Esistono pubblici per cui una testata registrata rappresenta, ancora oggi, un plusvalore rispetto al tweet quotidiano. Lo stesso vale per il contenuto estratto da quella testata e condiviso attraverso i social, che in questo modo assumono una funzione diversa. Lo stesso vale per i personaggi a cui chiedere un’intervista o un articolo. In questi anni la Romagna Cooperativa ha raggiunto politici di levatura internazionale, economisti, premi Nobel, protagonisti della cultura e dello spettacolo. E, soprattutto, dato voce a centinaia di cooperatrici e cooperatori, alle loro storie, ai loro piccoli e grandi problemi e successi, rappresentando spesso il primo trampolino di lancio per notizie che hanno poi assunto dimensione nazionale. I suoi editorialisti, a cui sono affidate rubriche fisse di approfondimento — come Emanuele Chesi, Fabio Gavelli, Cristian Maretti, Federica Angelini, Manuel Poletti, Davide Buratti — sono giornalisti ed esperti che godono di alta reputazione ciascuno nel proprio campo. Così come sono professionisti di valore i collaboratori storici della Romagna Cooperativa che hanno firmato gran parte delle interviste e degli articoli contenuti negli ultimi capitoli di questo volume.
Il secondo è il metodo redazionale, che consente di costruire in modo continuativo contenuti attraverso un gruppo di giornalisti professionisti e collaboratori autorevoli, con cadenza mensile. Gli stessi articoli diventano la base su cui è costruito il piano di comunicazione di Legacoop Romagna su tutti i canali, inclusi quelli elettronici: sito web, pagine social, video e podcast. Scrivere un articolo per la carta è molto diverso che farlo per il web, da ogni punto di vista. La carta porta con sé il senso del limite. Il limite dello spazio a disposizione, prima di tutto, che paradossalmente amplifica il tempo necessario per la preparazione. È una scrittura “slow”, che si accompagna a necessità di sintesi e cura dei contenuti, che ricerca il gusto per l’impaginazione e la titolazione rivolta al lettore. Con una capacità artigianale, concreta, necessariamente diversa dai meccanismi informatici dell’ottimizzazione per i motori di ricerca e gli algoritmi.
Il terzo è la capacità di avere costruito negli anni una filiera produttiva completa di tipo cooperativo. È una cooperativa lo Stabilimento Tipografico dei Comuni, che stampa le copie cartacee. È una cooperativa l’editore, Cooperdiem, che cura anche la raccolta pubblicitaria. Sono cooperative di giornalisti Almanacco, Fucina798 e Aleph, a cui appartengono i giornalisti professionisti che scrivono gli articoli. Sono cooperative Soasi e Adit, che mettono a disposizione le infrastrutture informatiche e i server su cui viene veicolata la versione digitale del giornale. Sono cooperative, infine, le imprese inserzioniste che sostengono il giornale attraverso la loro pubblicità.
Se è vero che un buon giornale, come scrisse Arthur Miller, «è una nazione che parla a se stessa», La Romagna Cooperativa ha tutte le caratteristiche per continuare a essere uno strumento utile per il suo pubblico di riferimento, anche nell’epoca dei nativi digitali.
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