La morte della fiction: il finale lo scegli con Twitter

Lunedì sera è andato in onda il finale di stagione di “Hawaii Five-0”, e ancora non riesco ad accettarlo. No, non seguo la serie, e ciò che mi ha lasciato interdetto non è il finale in sé, quanto il modo in cui ci si è arrivati.

Facciamo una piccola panoramica delle paturnie che assalgono ogni spettatore di serie televisive.

Chi ha un po’ di dimestichezza con la fiction a puntate, a lungo andare ha voglia di qualcosa di nuovo. Si va alla ricerca della perla, di qualcosa che è stato inspiegabilmente relegato in un orario impossibile o che gode di un pubblico di nicchia. Purtroppo capita che se il pubblico è troppo di nicchia, quella serie abbia un’aspettativa di vita brevissima, lasciando uno sparuto gruppo di telespettatori con un senso di irrisolutezza che sfocia ben presto in forme di aggressività immotivata (fu spassosissima, all’epoca della chiusura della serie “Jericho”, la reazione dei fans che intasarono il centralino della casa di produzione, obbligandola a girare altre otto puntate per chiudere la storia). Altre volte una serie pare andare talmente bene che gli sceneggiatori possono decidere di ignorare la coerenza narrativa, dilatando all’inverosimile una storia che non ha molto altro da dire (è il caso di “How I met your mother”, che anziché terminare alla quarta stagione viaggia spedita verso la nona, per l’irritazione dei fans di tutto il mondo).

Ma il momento massimo di isteria lo si raggiunge in occasione del finale. Tutto il tempo passato davanti a un televisore o a uno schermo di pc, tutte le trame aperte e portate avanti parallelamente devono risolversi negli ultimi quaranta minuti di vita della serie. E non sempre i risultati sono all’altezza delle aspettative (e quando si parla di finali deludenti lo spettro di “Lost” aleggia festante). Sembra che una chiusura all’altezza sia impossibile, almeno per quelle serie talmente mainstream che vorrebbero piacere a tutti, finendo per scontentarli.  

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“Hawaii Five-0” ha superato questo imbarazzo con una trovata a mio avviso riprovevole: ha delegato al suo pubblico. Il possibile finale è stato declinato in tre versioni differenti, tutte girate e pronte, lasciando però ai fans l’onere di scegliere il colpevole di turno, tramite votazione su Twitter.

La trovata ha avuto un grande successo negli Usa, con ottomila utenti che hanno preso parte alle indagini dei protagonisti, indirizzandoli ad una soluzione scelta a maggioranza. Chi si aspettava che in Italia la Rai si dimostrasse più pavida, è stato smentito. I tre finali erano lì, ed è stato il pubblico a scegliere (nel rispetto di chi segue la serie non dirò chi tra #Ilpreside, #Lassistente e #Lostudente si è rivelato essere il colpevole).

Non si tratta comunque di una novità assoluta. Nel 2006 Pier Francesco Pingitore aveva lasciato al pubblico la libertà di scegliere il finale del suo film per la tv “Domani è un’altra truffa” e con “Frammenti” su Current e “12” di Maccio Capatonda erano già stati proposti esperimenti di tv interattiva.

Gli elogi sperticati al coraggio della Rai si sprecano, c’è chi vede già delinearsi il futuro della fiction seriale. Per quanto mi riguarda questo esercizio di interattività è una deriva bella e buona. Deriva del lavoro di sceneggiatura, sempre più esternalizzato e de-responsabilizzato, ma anche deriva del pubblico, che è disposto a calpestare il tacito accordo tra fiction e spettatore, quella sospensione di incredulità che è l’essenza stessa dell’arte.

Vi immaginate cosa sarebbe successo se avessimo potuto scegliere il destino di Leonardo Di Caprio in “Titanic” o se avessimo potuto impedire a Tom Hanks di salire sull’aereo all’inizio di “Castaway”? Dare allo spettatore la sensazione di essere all’interno della storia deve essere un esercizio di stile e non  un espediente da social marketing.

Il caso di “Hawaii Five-0” non è indicativo, si tratta pur sempre di puntate autoconclusive. Vediamola piuttosto come una trovata pubblicitaria (tra l’altro riuscita).

C’è solo da sperare che non vada a costituire un precedente per tutti quegli autori che, pur di non inimicarsi il grande pubblico, sarebbero disposti a cedergli il diritto di scegliere che cosa fare della loro opera. E in tutto questo il pubblico non deve montarsi la testa: non spetta a lui decidere.

È così difficile lasciare che ci raccontino una storia?

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