ED: La tua prolifica produzione poetica, teatrale e da cantastorie (anche digitale) ti svela come un personaggio conviviale, che mette a proprio agio l’ascoltatore, un pensatore che non dà per scontato nulla, ma al contrario mette in dubbio luoghi comuni e si interroga su argomenti che ai più passerebbero inosservati perché basilari, naturali, ordinarie leggi del quotidiano. Ciò che colpisce della tua pratica è un eclettismo propedeutico, direi: sembra che per te sia molto importante raccontare, spiegare e commentare le tue fonti d’ispirazione che non sono tutte inscrivibili all’interno di un unico orizzonte poetico o teatrale, ma spaziano dalla letteratura alla cultura pop. Cos’è per te un’influenza?
RM: Be’, io sono eclettico nel senso che sono influenzato da molte cose diverse. Ma la prima cosa ad avermi influenzato è proprio l’eclettismo. Da adolescente mi è capitato di incontrare persone che avevano un dono: io lo chiamo “il gusto assoluto”. E’ il conoscere e l’essere in grado di apprezzare la musica da Bach al Rock, l’arte da Giotto alle maschere africane, la letteratura da Tolstoj a Bukowski. Questo mi ha sempre affascinato. Mi ha sempre affascinato moltissimo. Così ci ho provato anch’io, a diventare una di quelle persone. Ad un certo punto, anzi, mi è parso un dovere. Un dovere verso la sterminata bellezza e l’immane complessità del mondo. Mi sento sempre un po’ in colpa perché non conosco tutto, non capisco tutto, non sono -soprattutto- capace di collegare tutte le cose fra loro, formando un’unità coerente.
Riguardo a questa vocazione per le cose “elementari”, il fatto è questo: non esiste assolutamente nulla, in realtà, di elementare, di normale, di banale. Ne sono convinto in ogni mia più intima fibra. Questo, anzi, è una sorta di postulato della poesia. È qualcosa, secondo me, di cui tutti i poeti sono convinti. Come dice Wislawa Szymborka: “Non c’è nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue”. Ecco perché mi piace tanto parlare delle cose comunemente ritenute elementari; per distruggere questa triste illusione: che esitano cose elementari, normali e banali.
ED: Il tuo spettacolo dedicato a Mazzini si intitola ‘Come educare alla tempesta’. Lirico, ossimorico, è un titolo che all’estemporaneità della passione unisce la didattica dell’attesa, accenna alla calma e alla concentrazione razionale necessarie per apprendere una qualsiasi arte. Rientra nelle funzioni del poeta quella di indicare quale strada e modus operandi seguire nella vita così come nella produzione creativa? Inoltre, pensi che si possa insegnare la poesia?
RM: Mah, non credo. Non mi sembra che i poeti abbiano titoli per indicare il giusto modo per fare alcunché o la giusta strada per arrivare in alcun dove. Non mi sembra, soprattutto, che il poeta sia uno che trova risposte alle domande degli altri. Il poeta, semmai, è uno che trova domande che gli altri non si sono mai sognati di porsi. È uno che si mette a fissare esterrefatto un angolo di mondo dove, per tutti gli altri, non c’è un bel nulla da vedere. Almeno così mi sembra.
Se si può insegnare la poesia? Può darsi. Però mi sembra che nell’arte occorra essere abbastanza umili da riflettere sull’opinione di chiunque. E, contemporaneamente, abbastanza superbi da non accettare l’autorità di nessuno. Per cui faccio molta fatica ad immaginare un rapporto maestro-allievo in questo campo.
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